attualità, Lavoro

La strage del tribunale di Milano: solo un problema di sicurezza?

sicurezza

Un agnello, un giorno, apprese che esistevano i lupi e che questi mangiavano agnelli. Avendo paura e non avendo mai visto un lupo, si costruì una capanna e impedì a tutti gli animali della fattoria di entrarvi. Questi non furono molto contenti, così che l’agnello finì per procurarsi molti nemici e si sentì più in pericolo di quando aveva come unico nemico il lupo…

E’ l’inizio di una storia sulla diffidenza che ascoltai alle scuole elementari e che mi è tornata in mente leggendo delle lunghe file all’ingresso dei tribunali italiani, provocate in questi giorni dalla intensificazione delle misure di sicurezza a seguito della strage al Tribunale di Milano.

Attese di ore che hanno impedito alle persone, avvocati per lo più, di lavorare, evidenziando il paradosso che per svolgersi in sicurezza i lavori della giustizia non devono svolgersi affatto.

Mi chiedo se queste file surreali, con i disordini che hanno provocato, abbiano fatto sorgere qualche dubbio circa la natura dei problemi evocati dal gesto folle di Giardiello – diversi capi d’accusa ed, evidentemente, violente fantasie di rivalsa.  E’ tutto riducibile a un problema di sicurezza?

Credo si possa guardare la vicenda anche da un altro punto di vista. Per esempio prendendo in considerazione che i luoghi della giustizia sono continuamente costellati di piccoli e grandi follie agite. I rapporti tra avvocati, assistiti e giudici sono sempre più organizzati dalla diffidenza e dall’ insoddisfazione e il sistema giudiziario, che dovrebbe avere la funzione di regolare conflitti, finisce per esasperarli, cristallizzandoli in dinamiche violente e senza via di uscita di cui nessuno si occupa. Quasi nessuno.

Presso l’Ordine degli Avvocati di Bari si sta svolgendo un progetto di intervento sullo stress lavoro correlato nella professione forense: l’Ordine sta provando ad occuparsi dei problemi che i propri iscritti incontrano nella professione, offrendo loro spazi di pensiero e di confronto. Occupandomi di questo progetto[1], sto iniziando a capire che la professione di avvocato si svolge oggi entro un clima culturale che rende molto difficile pensare la propria funzione sociale, svolgerla, svilupparla.

Uno dei problemi centrali di questa professione, oggi, è la diffidenza reciproca che organizza il rapporto tra avvocati e clienti. Un avvocato riassumeva questa diffidenza in modo illuminante: Nel nostro ambiente – asseriva – si dice che il tuo cliente è il tuo peggior nemico. E credo che il caso di Milano abbia tragicamente realizzato questa fantasia.

Sto parlando di una crisi del rapporto tra cliente e professionista, che non è certo un problema della sola professione forense.  Si pensi alla medicina e a come è cambiato il rapporto medico – paziente negli ultimi 40 anni. Un rapporto silente fino a qualche decennio fa: il medico visitava mentre il paziente stava zitto; solo alla fine della visita il medico parlava per dire al paziente che cura avrebbe dovuto fare. Oggi il paziente chiede, vuole essere messo al corrente di ciò che accade e spesso sa o pensa di sapere (si pensi al ruolo di internet in merito); non riconosce più al medico quel potere fondato sul fatto che è lui il solo che sa; non è più “paziente”, cioè non si affida passivamente al medico, ma ne controlla l’operato.  A fronte delle denunce che fioccano in ambito sanitario i medici sentono l’esigenza di difendersi e lo fanno, per esempio, prescrivendo farmaci ed accertamenti anche quando l’esperienza clinica suggerisce che non è necessario ( è la cosiddetta medicina difensiva che costa alla sanità italiana 10 miliardi di euro ogni anno ) ; nel vissuto dei medici i pazienti cominciano a diventare qualcosa da cui difendersi più che coloro per cui si lavora.

Si tratta di un conflitto che mina la base di un rapporto professionale, cioè la fiducia, l’idea che l’altro è con me e non contro di me. Un conflitto che riguarda oggi anche gli avvocati ed i propri clienti e che credo abbia contagiato tutto il sistema giudiziario: si è diffidenti anche nei confronti della legge e della sua applicazione.

Quello della diffidenza è un copione emozionale dilagante ai giorni nostri; ha a che fare con la simbolizzazione del potere: chi è diffidente ha paura delle relazioni di dipendenza ( il rapporto professionista – cliente ha  necessariamente degli aspetti di dipendenza )  poiché teme che il potere dell’altro possa essere usato contro di lui. Entro le culture diffidenti il potere non è mai associato alla competenza; è un potere simbolizzato sempre come cattivo, sadico, egoista. Un potere da cui si teme di essere fregati, imbrogliati, raggirati, sfruttati, truffati.

Si capisce che, entro una cultura diffidente, nei rapporti ciascuno si tutela dal potere dell’altro, cercando di esercitarne a sua volta uno.   Per fare un esempio, i clienti degli avvocati esercitano un potere non fornendo informazioni importanti o distorcendo informazioni, svalutando il lavoro del professionista, minacciando di non pagare o di rivolgersi alla concorrenza.

Qui si apre un altro grande problema della professione forense: la comunità professionale è profondamente frammentata, conflittuale, i rapporti interni sembrano orientati ad un’aspra  competizione. Si pensi al fatto che quella degli avvocati è l’unica categoria professionale dove il collega può essere la controparte, il nemico. Soprattutto, quella degli avvocati è una schiera molto numerosa, affollata, soprattutto nel sud Italia. Una schiera di professionisti che ha bisogno di clienti per esistere.

Nel corso del lavoro con l’Ordine di Bari, ho condotto una piccola indagine sull’immagine degli avvocati: un esperimento per iniziare a capire qualcosa in più di ciò che clienti e potenziali clienti chiedono alla professione forense, come la vedono, come ci stanno in rapporto. Sono emersi molti spunti interessanti. Per esempio nel cercare le persone da intervistare mi è stato estremamente difficile trovare qualcuno che non si fosse mai rivolto ad un avvocato. Tutti coloro con cui parlavo avevano fatto ricorso ad un legale anche più di una volta e per questioni di competenza civile.  Secondo queste persone le questioni per cui più frequentemente ci si rivolge ad un avvocato sono: separazioni, eredità, liti condominiali, RCA, mobbing.  In relazione all’avvocato non vengono in mente reati, ma conflitti della vita quotidiana. Conflitti che un tempo venivano gestiti diversamente, ad esempio con l’aiuto della comunità o con l’appello a valori condivisi.

Credo che questa “corsa al legale” sia in relazione ad una profonda anomia che caratterizza la contemporaneità: un’ assenza di regole e sistemi di valore condivisi, che rendono qualsiasi conflitto qualcosa da cui è impossibile uscire.

Una delle strade tentate da una certa cultura dell’avvocatura per guadagnare clienti è stata quella di sfruttare questa anomia, piuttosto che occuparsene. Cavalcare l’anomia, per esempio esasperando o scovando contenziosi per poter lavorare, vuol dire rinforzare l’idea che i conflitti possono essere solo violenti e distruttivi,  e mai qualcosa di costruttivo. Vuol dire scoraggiare il tentativo di provare ricostruire regole entro i contesti conflittuali ed alimentare l’idea che il conflitto è qualcosa in cui si vince o si perde, mentre grazie al conflitto, per esempio, i contesti possono svilupparsi. Ancora, vuol dire alimentare la fantasia che qualsiasi danno è risarcibile, che qualsiasi emozione è monetizzabile. Vuol dire incoraggiare ad agire fantasie di rivalsa, vendetta, giustizia; una giustizia che non è certo quella dei tribunali.

Un avvocato con cui abbiamo lavorato sintetizzò così la difficoltà della sua categoria: la giustizia che fantasticano i clienti non è mai la giustizia dei tribunali.  Credo che quell’avvocato abbia colto perfettamente il problema; sentirsi nel mezzo tra due entità profondamente autoriferite e con cui è difficile dialogare: le fantasie delle persone da un lato, la legge e la burocrazia giudiziaria dall’altro.

Assecondare le fantasie di giustizia delle persone è forse un modo per guadagnare un cliente nel breve periodo, ma anche un modo per svalutare l’intera categoria professionale nel lungo periodo, poiché le fantasie sono destinate ad essere frustrate dalla realtà. Ed è un modo pericoloso perché invita ad agire la rabbia, la pretesa, la rivalsa, la diffidenza entro conflitti senza fine pronti a riversarsi su qualsiasi cosa.

In questo senso il tribunale diventa davvero un luogo pericoloso, poiché luogo ove le emozioni non sono pensabili, ma solo agite con violenza, anche se non sempre si spara.

Ho parlato di una cultura legata all’ambiente giuridico, di quella che ha a che fare con i fatti del tribunale di Milano. Ma non è certo l’unica. Il lavoro che si sta facendo con l’Ordine di Bari, per esempio, apre a risorse inaspettate. Vi è un’altra cultura dell’avvocatura, una cultura che, se supportata,  invece di invidiare vecchi poteri può costruire strade di sviluppo della professione sostenibili.  Ad esempio pensandosi quale risorsa in grado di aiutare a ricostruire regole di convivenza, invece che cavalcare la loro distruzione; capace di porre limiti alle fantasie di pretesa e di vendetta, invece che alimentarle.

[1] Il progetto è condotto in collaborazione con Associazione Gruppo Utile ONLUS – Bari. ed è promosso dal Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bari

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Le procedure e le emozioni. Qualche parola sul disastro aereo Germanwigs.

Diagnosticare è un termine che ha origine dal greco  (διά + γιγνώσκειν) e significa “conoscere attraverso”. Si può usare la diagnosi per conoscere, per dare senso a sintomi e vissuti; intesa come momento conoscitivo, esplorativo, la diagnosi può essere una parte fondamentale di un intervento “psi” a fronte di una domanda di aiuto.

Ma si può usare una diagnosi anche per smettere di interrogarsi, per chiudere un problema, per non pensarci più. L’atteggiamento diagnostico inteso in questo senso è molto comune: tizio è silenzioso perché è timido; caio alza la voce perché è aggressivo; sempronio non sta mai fermo perchè è iperattivo.  E’ la diagnosi che spiega. Sono modi che utilizziamo per smettere di capire cosa accade in un contesto, in una relazione. Ed è un modo con cui sempre più frequentemente anche la psichiatria e la psicologia trattano le emozioni. La diagnosi riduce le emozioni impreviste a disturbo da etichettare, quindi da tenere a bada.

Negli ultimi giorni i media, complici fior fiore di professionisti della psichiatria e della psicoterapia, hanno prodotto centinaia di diagnosi di questo tipo in relazione al disastro aereo causato dal copilota Andreas Lubitz, che ha portato l’aereo Germanwings a schiantarsi contro le Alpi francesi, con circa 150 persone a bordo.

Depressione è la versione più accreditata. Alcuni parlano di sindrome da burn out (una sorta di esaurimento emotivo in relazione alla vita lavorativa). Qualcuno di delirio paranoico. Ieri ho ascoltato uno psichiatra parlare molto seriamente, ad uno dei TG più seguiti dagli italiani, di narcisismo di morte. Come non conoscerlo, il narcisismo di morte! Ci sarebbe da chiedersi che senso ha parlare di narcisismo di morte in un telegiornale, dato che nessuno capirebbe di che si tratta. Certamente un narcisismo poteva essere compreso anche dai profani, ed era quello dello psichiatra che utilizzava queste parole “dotte”, ovvero incomprensibili ai più.

Ma il punto non è che vengano supposte diagnosi poco sensate. Il punto è che ogni diagnosi in questo caso è senza senso. Perché non ha senso una diagnosi post mortem; o meglio è evidente che, non potendo essere un momento conoscitivo di un rapporto terapeutico, si tratta di un tentativo di risolvere, chiudere un problema, riducendolo ad un disturbo mentale individuale. Non ad uno dei familiari delle vittime sarà utile. Non ai genitori di Andreas, che vivono un momento drammatico, lacerante. Non a chi oggi si domanda quanto è sicuro viaggiare in aereo.

Definire il disturbo mentale di A. sembrerà forse utile alle compagnie aeree, in cerca di qualcosa da prevenire attraverso il perfezionamento delle procedure di sicurezza, prima e pronta risposta data in questi giorni.  C’è qualcosa di paradossale in questo perché A. ha distrutto un aereo proprio servendosi delle procedure di sicurezza. Se ci si pensa, si può comprendere lo sbigottimento delle compagnie ed il loro tentativo di aggiungere e perfezionare procedure (compresa quella di intensificare i check up medici e psicologici del personale di volo).

Non credo sia una risposta sufficiente. Un pilota e blogger americano, Patrick Smith, scrive sul suo blog che mai nessuna accuratissima procedura sarà in grado di garantire l’assenza di imprevisto: “tutti i test medici del mondo non potranno escludere con certezza la possibilità di un crollo nervoso”. Sono d’accordo.  Anzi proprio la ossessiva affezione alle procedure ed al controllo  credo abbia avuto un ruolo in questa vicenda.

Si pensi per esempio ad Andreas, l’insospettabile, che ha tenuto perfettamente sotto controllo le sue emozioni, tanto da non far sorgere il minimo dubbio a colleghi e familiari che potesse essere utile fermarsi a capire che succedeva.

Negli ultimi tempi molti pazienti arrivano domandando di riuscire a controllare le proprie emozioni: si arrabbiano troppo e vorrebbero essere più ragionevoli, si appassionano troppo e vorrebbero rimanere più lucidi. Chiedono di imparare l’arte dell’autocontrollo. E’ un modo di trattare le emozioni: si può pensare che siano un fastidio, un ostacolo alla relazione sociale ( in particolar modo le cosiddette emozioni negative), da tenere a bada, da domare, silenziandole; si può temere di perdere cose e persone a cui si tiene a causa delle emozioni. Si può temere di distruggere ciò che si ama a causa delle emozioni. Si capisce che, viste in tal modo, le emozioni vengano simbolizzate come qualcosa da reprimere o eliminare. Da tenere sotto controllo.

Una cosa che si è capita di Andreas è che fosse davvero appassionato al suo lavoro. Pilotare aerei era sempre stato il suo sogno. Sembrerebbe che il lavoro, quel lavoro così tanto caratterizzato dal controllo e dall’applicazione di procedure, fosse la ragione di vita di A., che fosse un modo per A. di esercitare la sua esigenza di controllo. E si è capito che era in corso un percorso medico e diagnostico che avrebbe potuto portargli via quel lavoro così vitale. Una perdita di controllo  insostenibile. Una messa in scacco della illusione di poter controllare se stesso ed il rapporto con il mondo.

Controllare è sempre un illusione. Non si controlla alcunchè in realtà. Chi controlla non è mai pienamente soddisfatto del suo controllo poiché rimane sempre uno scarto irriducibile tra la propria esigenza di controllo e l’esistenza di ciò che è altro da sé; direi anche l’esistenza di sé stessi: se il tentativo è di domare ciò che si agita dentro, ciò che tieni fermo per le zampe si muove con la coda.   Andreas Lubitz ha tragicamente reificato l’unico vero modo di controllare, cioè distruggere. Solo distruggendo si annulla quello scarto tra la propria esigenza di controllo e le Cose.

Ma controllare, non è l’unico modo di simbolizzare e trattare le emozioni o lo scarto tra se ed il mondo. Per esempio delle emozioni si può parlare. Le si può conoscere. Le si può usare come informazione su ciò che accade in una relazione, in un contesto. Ci si può separare dalla proprie emozioni, dalle fantasie, le si può pensare, invece di agirle. Ma sono necessari contesti in cui sia possibile ciò, in cui le emozioni non siano considerate solo come qualcosa da arginare entro procedure.

Allora mi domando se un problema delle compagnie aeree in questo momento non sia quello di offrire contesti in cui questo sia possibile. Oltre che introdurre nuove regole e procedure (reputo di buon senso l’idea che al comando di un aereo non si rimanga mai soli, per molti motivi, non solo per paura che qualcuno sia malintenzionato) si potrebbe prendere atto che il lavoro di piloti e personale di cabina è un lavoro complicato e in rapido mutamento. Un lavoro che comporta una elevata responsabilità e al contempo vincolato a rigidissime procedure. Un lavoro che comporta il mettersi in relazione con emozioni di paura, la propria e quella dei passeggeri, rispetto alla quale le procedure non sono mai sufficientemente rassicuranti. Un lavoro che perde rapidamente prestigio sociale e le cui condizioni sono spesso difficili da conciliare con una eventuale famiglia.

Allora una buona idea potrebbe essere quella di offrire a questi lavoratori degli spazi di pensiero sul proprio lavoro e sui vissuti implicati: il rapporto con le procedure, con la responsabilità, con i vissuti e le proposte dei passeggeri. Offrire spazi per parlare dei problemi che si incontrano nel proprio lavoro potrebbe essere la sconferma che il proprio contesto lavorativo non accoglie emozioni e che queste sono da controllare, nascondere, reprimere, silenziare; nella speranza che non esplodano.

casi clinici, famiglia

Donna, madre, e…? Riflessioni sul rapporto tra il dentro ed il fuori della famiglia.

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Negli ultimi giorni, come sempre accade intorno all’8 marzo, sono comparsi molti articoli riguardo la condizione, i problemi e i vissuti della donna nella società contemporanea.

Hanno parlato anche alcuni psicoanalisti illustri, come Massimo Recalcati, di cui segnalo l’articolo comparso su repubblica il 28 febbraio:

Ciao figlio. E’ tempo della mamma narciso.              http://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2015/03/Ciao-figlio.pdf

Si parla del rapporto tra la donna e la madre; un rapporto conflittuale secondo Recalcati, in cui, a seconda del periodo storico ha la meglio l’una o l’altra componente dell’identità. Nella società patriarcale la donna era sacrificata alla madre, la quale esisteva per i figli, per la famiglia. Deriva di questo sacrificio era una spinta a fondersi con i figli, una difficoltà a separarsene, una tendenza fagocitante, controllante. La patologia del materno, dice Recalcati, era la trasfigurazione dell’accudimento in una gabbia dorata in cui non è prevista separazione.

Oggi, mutate le condizioni sociali, la donna non reclama più il possesso dei propri figli, ma rivendica la possibilità di liberarsene, di volere altro per sé, di guardare altrove. La madre narcisista che considera i figli un peso mortificante, a dire di Recalcati è la nuova patologia del materno: “Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna.”

Leggendo l’articolo pensavo insistentemente a Dalila, una donna di circa 40 anni, sposata, con due figli. Mi chiese una consulenza perché non riusciva più a gestire sua figlia quattordicenne: stava iniziando a truccarsi e a vestirsi in modo molto provocatorio, frequentava compagnie “pericolose” di ragazzi molto più grandi e a scuola rischiava una seconda bocciatura. Temeva che sua figlia avesse qualche problema, aveva paura che finisse in qualche brutto giro, che qualcuno fraintendesse la sua spigliatezza e ne approfittasse.

Dalila era una donna di bell’aspetto. Una bellezza che sembrava volutamente addomesticata nell’ordine sobrio della pettinatura e del vestiario scuro.

Al primo colloquio per un’ora intera parlò di sua figlia e di quanto le facesse paura l’esplosione della sua seduttività, del suo desiderio. Il desiderio di chi? – mi chiedevo mentre parlava.

Allora le chiesi cosa facesse nella vita: di cosa si occupava, cosa le piaceva? Sembrò spiazzata da questa domanda, quasi infastidita, come se stessi violentemente spostando i riflettori dal palcoscenico al regista dietro le quinte.   Mi disse che faceva la mamma e la moglie e che non aveva tempo per altro. Si era sposata molto giovane; le sarebbe piaciuto lavorare, ma non sa che cosa avrebbe potuto fare. A scuola era una “capra”, l’unica cosa che sapeva fare era creare dei gioielli artigianali. Ma ormai non avrebbe saputo da dove cominciare. Forse avrebbe dovuto continuare? – si domandò a fine colloquio. Forse non avrebbe dovuto lasciarsi mettere in gabbia? Ecco – dice – si sente in gabbia e vorrebbe scappare. Mi chiese se pensavo che avrebbe dovuto lasciare sua figlia al suo destino per occuparsi finalmente di sé stessa.

Dalila aveva iniziato dalla trasgressività di sua figlia per parlare della sua trasgressività.

Era passata nel corso di un colloquio ( e non nel corso di un secolo ) dalla madre fagocitante e controllante messa in scacco dalla figlia ribelle ( unico destino possibile della madre che incorpora ) alla madre che rivendica la sua libertà e che desidera liberarsi dei figli.

E cercava di mettere in gabbia anche me, chiedendomi di avallare l’una o l’altra strada e di semplificare così un problema molto complesso. Potremmo dire che il “fagocitare/espellere” è una modalità dell’inconscio per semplificare la complessità emozionale delle relazioni. Sono due facce della stessa medaglia.

E non credo che il problema fosse, seguendo Recalcati e anche un po’ il buon senso, quello di “connettere generativamente l’essere madre e l’essere donna”, ma piuttosto quello di riconoscere la complessità dei desideri e delle paure in gioco.

Pensiamo alla figlia quattordicenne di Dalila, che evidentemente seduceva anche la madre con i suoi comportamenti, cioè la legava a sé facendola preoccupare; e contemporaneamente ne provocava il desiderio nascosto di trasgressione, sollecitandolo. E che era anche altro oltre che figlia: per esempio era una ragazza che temeva di confrontarsi con i passaggi evolutivi ( era la seconda volta che rischiava di non farsi ammettere agli esami di terza media ) e che si spostava artificiosamente in avanti attraverso l’uso del corpo e delle relazioni.

Pensiamo a Dalila che si sentiva incastrata nel ruolo di madre e al contempo sollecitata nella suo stesso desiderio di trasgressione; che si sentiva in gabbia non tanto perché costretta dall’atteggiamento della figlia, ma perché la figlia le ricordava che, anche lei, non sapeva cosa altro desiderare, verso quale futuro guardare.

Più che connettere il ruolo di madre ( o figlia ) e di donna direi che oggi la sfida è quella di riempire di senso questi titoli, riconoscendo di essere anche altro. Cittadina, per esempio; ingegnera, insegnante, operatrice ecologica, segretaria. Una giovane donna che sapeva realizzare gioielli artigianali. Una ragazza che ha paura del futuro. E partire da lì per immaginare il futuro, per pensarlo, progettarlo, costruirlo. E’ dentro questa possibilità che ci si accorge che la contrapposizione – culturale – tra madre, donna e “qualsiasialtracosa” è fasulla e che, anzi, solo sentendosi anche altro è possibile sentirsi madri e donne.

E, perché no, padri e uomini. Intendo dire che il discorso può svolgersi anche al maschile. Tuttavia è più raro che ci si ponga il problema del rapporto tra uomo e padre ( caso mai si parla della paternità in sé ) perché il discorso culturale dà per scontato che si sia anche altro oltre che uomo e padre. Mentre per la donna evidentemente non è ancora così.

Ma il punto è che oggi è culturalmente difficile investire su altro che non sia la famiglia. Ed è difficile per le famiglie realizzare che la propria funzione è quella di preparare i suoi membri ad avere a che fare col fuori, ad investire su obiettivi esterni. L’illusione è che si possa stare dentro, pensarsi dentro, al riparo, tutta la vita. E che si debba lavorare per renderlo il migliore dentro possibile.

E’ questa implosione che organizza rapporti violenti e impossibili nelle famiglie. E’ pensarsi solo madri o padri che rende impossibile essere genitori. E’ pensarsi solo donna o uomo che rende impossibile essere persone, coniugi, cittadini, lavoratori, … Ciascuno continui come vuole.

Spunti teorici

Il potere che non ti aspetti.

 

“Negli scritti di Michael Foucault compare spesso una frase, questa:

“Nella teoria politica non si è ancora riusciti a fare ciò che si è fatto nella storia: tagliare la testa del re”.

Potere

Questa frase significa che noi pensiamo ancora il potere secondo vecchi modelli: quello del sovrano e quello della proprietà.

Il modello del sovrano implica che il potere venga visto come un comando che viene dall’alto e che viene applicato attraverso la legge. Il principio della proprietà comporta che il potere venga concepito come qualcosa che si possiede, che alcuni hanno e altri non hanno, che si può cedere o acquisire.

Secondo Foucault  “tagliare la testa del re” vuol dire pensare il potere facendo a meno di questi due presupposti. Il potere può essere pensato secondo un modello reticolare: Il potere è una rete; è un insieme di azioni su azioni. Si esercita un potere non quando si trasmette un’energia su un polo passivo, ma quando un’azione influenza il campo di altre azioni possibili di altri soggetti. Questo vuol dire esercitare un potere. Tutto il resto è forza, violenza, comunicazione, ma non potere.

Da qui Foucault deriva un’altra conseguenza: il potere per esercitarsi deve lasciare dei margini di libertà; in alcuni casi deve crearli. Una della azioni del potere – questo è uno dei punti più interessanti del pensiero di Foucault – consiste nel creare libertà.”

Estratto dal video:

Oltre il Leviatano.

Leonardo Daddabbo

Lavoro, Spunti teorici

Liberi e impotenti: uno sguardo sulla retorica del successo.

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Non siamo mai stati così liberi. Non ci siamo mai sentiti così impotenti”. Così il sociologo Z. Bauman parla di quel paradosso dell’occidente per cui, a fronte dell’affievolirsi di vincoli che caratterizza la contemporaneità, cresce un senso di angoscia che immobilizza le persone.

E’ interessante l’interpretazione che ne dà Paul Verhaeghe[1] nell’articolo intitolato “Tutta colpa del neoliberismo”, pubblicato su “The Guardian” qualche giorno fa[2]. (http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/sep/29/neoliberalism-economic-system-ethics-personality-psychopathicsthic )

Sintetizzerei il discorso di Verheaghe in questo modo: la libertà di cui godiamo è fasulla, perchè costretta entro la retorica del successo. In altre parole, siamo liberi di fare come vogliamo, purchè l’obiettivo sia avere successo, farcela, emergere. Siamo bombardati costantemente da questa cultura: chiunque può farcela se si impegna duramente. Il successo dipende dal talento e dall’impegno dell’individuo.

La retorica del successo sarebbe in stretta relazione con l’eclissarsi della solidarietà come valore fondante la convivenza: se la preoccupazione è quella di avere successo è difficile non guardare all’altro come ad un concorrente; così, a lavoro per esempio, si indeboliscono i legami sociali con i colleghi ed il senso di appartenenza all’organizzazione per cui si lavora.

Che fine fa l’identità delle persone entro questa cultura se è vero, come sottolineano molti psicoanalisti, che una delle componenti fondanti l’identità è “essere riconosciuti dall’Altro”? Che fine fa l’identità se oggi essere riconosciuti vuol dire centrare l’obiettivo del successo?  Per chi “ce la fa”, si tratta evidentemente di incassare un riconoscimento fasullo:  piuttosto è uno sguardo che invidia, che vorrebbe impossessarsi della fortuna altrui, che auspica il fallimento altrui per potere sentirsi meno minacciato, meno piccolo. Chi rimane indietro, entro la retorica del successo, è un parassita, uno scroccone, un bamboccione, un inetto.   Se non hai successo… non sei nessuno ( mai modo di dire fu più azzeccato ).

Il successo di cui si parla sembra davvero una trappola mortale, qualcosa che è destinata a mortificare piuttosto che a far sentire vivi.

Viene in mente che la parola successo è il participio passato del verbo “succedere”.  Implica qualcosa che si è conclusa, che è accaduta, che è dietro le spalle. Non c’è futuro nella retorica del successo, ma solo una preoccupazione per ciò che si riesce a incassare, a finire, a portare a termine. Non è prevista apertura. E’ un prendi e porta a casa. A casa tua.  Nella retorica del successo impera una visione individualistica e manca una idea di futuro. Le due cose sono strettamente correlate. Il futuro non è mai futuro individuale. E’ futuro collettivo e non può essere altrimenti: il futuro implica un oltre l’individuo, un dopo l’individuo.  Senza una idea di futuro l’atteggiamento nei confronti del mondo è un atteggiamento predatorio. Prendi e porta a casa, appunto. Senza una idea di futuro le risorse sono qualcosa da consumare, possibilmente prima che le consumi qualcun altro. E’ la logica delle fette di torta da spartirsi. E in questa logica l’Altro ( persona o gruppo )  è sempre nemico, dato che è colui che può sottrarti qualcosa.  Siamo all’ homo homini lupus  di hobbesiana memoria.

Effettivamente mancano le premesse per un riconoscimento reciproco in questo terreno. Ma è proprio tutto così? Sembra che nel discorso di Verheaghe manchi un’alternativa; anzi sembra che l’alternativa sia impossibile entro la cultura in cui tutti siamo immersi. Credo che l’alternativa manchi non perché non esiste, ma perché fuori dalla pratica clinica è difficile individuarla. E credo anche che una delle funzioni sociali della psicologia e della psicoanalisi sia quella di individuare e valorizzare alternative alle culture dominanti e senza prospettive.

Penso ad un progetto sullo stress lavoro correlato con liberi professionisti di cui mi sto occupando attualmente: si tratta di gruppi di formazione e consulenza psicologica che aiutano chi vi partecipa a leggere lo stress come segnale di una cultura lavorativa problematica e a intervenire su quest’ultima. La libera professione è forse la categoria più a rischio di invischiamento nella retorica del successo così come l’abbiamo descritta finora e credo che questa cultura sia una matrice potente di stress.

In un gruppo di lavoro con avvocati, per esempio, è emersa tutta la problematicità di una comunità professionale molto frammentata, conflittuale, organizzata da una forte competitività. Ma anche un desiderio profondo di riconoscere i rapporti di colleganza come risorsa in un periodo di crisi e cambiamento della professione forense.  Si può dire che questi professionisti chiedono di smetterla di competere con i colleghi per accaparrarsi i clienti; ovvero di imparare a collaborare con i colleghi per capire come avere a che fare con un cliente nuovo, che chiede cose diverse e non scontate. Il punto è proprio questo: recuperare che si lavora per qualcuno e non per accaparrarsi qualcuno. E se si lavora per qualcuno, il collega, l’amico, il formatore, il capo, il dipendente, non possono che essere una risorsa.

Chiedersi per chi si lavora, avere strumenti per capire cosa chiede e perché, è un’alternativa alla cultura del successo.

Uscire dalla fantasia che il lavoro sia uno strumento di realizzazione personale (o di sopravvivenza, che è l’altra faccia della medaglia)  e recuperare la sua funzione sociale è un passo in direzione di una costruzione di identità ( non solo professionale) e limita la fantasia di dover abbandonare il lavoro per sentirsi liberi. E’ come dire che è molto più utile, anche ai fini della stima di sé, chiedersi a cosa serve il mio lavoro, che domandarsi qual è il lavoro che può servirmi di più.

E’ un altro modo, questa volta reale, per avere a che fare con l’Altro, per riconoscere ed essere riconosciuti dall’Altro.

[1] Professore e Presidente del Dipartimento di Psicoanalisi alla Ghent University _ Belgio [2] SI trova una traduzione in italiano a questo link: http://www.thepostinternazionale.it/mondo/regno-unito/tutta-colpa-del-neoliberismo

casi clinici, Lavoro

Alternative alla cultura del “candidato ideale” : la selezione di aspiranti medici.

selezioneNel 2013 ho lavorato per la facoltà di medicina di una prestigiosa università che seleziona i suoi studenti attraverso prove di ingresso scritte e orali. Mi chiedevano di aiutare le commissioni, composte da professori dell’università, a valutare i candidati che aspiravano a diventare studenti di quella facoltà. Cercavano studenti che avrebbero portato avanti l’università con profitto ed impegno e che sarebbero diventati medici eccellenti.

E’ una cultura diffusa quella dell’ “uomo giusto al posto giusto”. Forse qualche collega la troverebbe di buon senso e lavorerebbe a colloqui attitudinali atti a misurare quelle caratteristiche che si presumono alla base di una brillante carriera da studente di medicina prima e da medico poi. Anche quelle caratteristiche, però, le dovrebbe definire in base al buon senso perché non esistono evidenze scientifiche sul rapporto tra caratteristiche individuali, a prescindere da relazioni, e percorso formativo/professionale. Quest’ultimo si costruisce entro incontri, attese, contesti, culture; non è certo inscritto in qualche evoluzione psicologica del DNA.

Allora gran parte del mio lavoro fu quello di capire con i docenti con cui lavoravo che attese avessero nei confronti di questi studenti e perché. E scoprimmo molte cose interessanti, utili a fare un buon lavoro nell’incontro con i candidati. Un lavoro che era sì di valutazione, ma che poteva diventare anche un feedbeck per l’università, per il suo sviluppo, per il suo progetto formativo.

Fu centrale, ad esempio, ripensare alla crisi del rapporto medico-paziente che questi professionisti – oltre che professori – vivevano non senza disagio e rabbia. Un rapporto che fino agli anni settanta era fondato sul potere assoluto del medico a cui il paziente necessariamente si affidava, in modo passivo e fiducioso. La passività era dovuta all’essere in rapporto con il detentore di una tecnica e di un sapere di cui non si conosceva nulla e nella quale si sperava in funzione della propria salute. Un docente, giovane primario di chirurgia presso un ospedale romano, mi disse scherzosamente: “Dottoressa io quando visito parlo in latino, così i pazienti non capiscono niente e non mi fanno domande!”. Quel medico era figlio di un più famoso e anziano chirurgo che certamente, ai suoi tempi era abituato a non ricevere domande, osservazioni, commenti dai suoi pazienti.

Oggi le cose sono molto cambiate. Si pensi anche solo a come ha modificato questo scenario l’avvento di internet. Oggi molti ricorrono alla rete per autodiagnosticarsi e curarsi, per informarsi, per verificare le competenze del medico. Il paziente non è più colui che non sa. Si pensi anche alla istituzione del Tribunale del malato, agli audit sulle prestazioni sanitarie, alla medicina difensiva, all’introduzione del consenso informato. Azioni, queste che reagiscono alla squilibrio di potere nel rapporto medico paziente, cercando di dare potere al paziente. Azioni che hanno anche prodotto in questo rapporto una crescente e a volte violenta e improduttiva conflittualità e che hanno alimentato la diffidenza reciproca.

E allora il problema è: in rapporto a questi problemi quali competenza cercare e quali provare a costruire negli aspiranti medici che venivano selezionati? Cosa vuol dire “eccellenza” in questo scenario? E ancora, cosa restituire a questi candidati per impostare il loro percorso di studi? Quali feedbeck fornirgli per stimolare quale progetto professionale? E su cosa puntare nella formazione universitaria?

Come si vede siamo molto lontani dall’idea iniziale di “selezionare i candidati migliori”. Una idea impossibile, perché il “candidato migliore” non esiste, è una fantasia, un sintomo di una organizzazione con dei problemi e non un progetto di sviluppo di quella organizzazione.

Nel corso del lavoro convenimmo su due criteri che sembrarono a tutti molto importanti per lo sviluppo della professione medica.

Il primo riguardava la possibilità di scardinare tra i candidati il mito di una medicina potente e buona, interamente fondata sul fare il bene del paziente, sull’aiuto, sul valore della solidarietà, sul salvare la vita; non perché quello dei medici non possa essere un progetto altruistico, ma perché questi presupposti, da soli, non ammettono altri organizzatori del rapporto all’infuori della fiducia e della gratitudine da parte del paziente e della soddisfazione onnipotente da parte del medico. In altre parole un obiettivo dei colloqui è stato quello di verificare la disponibilità ad abbandonare il mito per informarsi e conoscere la realtà dei contesti della medicina, la sua storia, le sue condizioni attuali.

E qui veniamo al secondo punto. Se si esce dal mito e si incontra la realtà, quella fatta di conflittualità e di un rapporto non più scontato tra medico e paziente, diventa molto importante avere competenza relazionale e organizzativa. Che vuol dire? E come si valuta? Si tratta di una competenza complessa che definirei in generale come capacità a stare dentro una relazione, ad interessarsi ad essa, a svilupparla. Chi ha competenza organizzativa in un rapporto professionale rinuncia a partire dal potere scontato per organizzare il proprio ruolo e quello del paziente/cliente ed è in grado di costruire una relazione di fiducia e interesse reciproco nella contestualità di ogni rapporto. Chi ha competenza organizzativa non simbolizza il proprio paziente/cliente come una minaccia/salvezza/promessa e quindi non se ne difende; cerca invece di conoscerlo, di ascoltare la sua domanda, di mettere in rapporto le sue competenze con quella domanda. E come si può valutare questa competenza in un colloquio? A partire dalla relazione nel qui ed ora, tra i candidati e chi valuta, che può oscillare tra due poli: COMPIACENZA           CONTESTUALITA’

Si può differenziare tra chi è capace di interessarsi del confronto che viene a crearsi nel qui ed ora e chi invece è totalmente preso dalla dimensione valutativa, proponendo un rapporto fondato su ciò che immagina come aspettative del selezionatore. La compiacenza è certamente inevitabile e segno di adattamento in un contesto di valutazione, quando però diventa una dimensione pervasiva ostacola il rapporto; qualsiasi rapporto, poiché comporta un disinteresse totale non solo per l’interlocutore, ma per la crescita e lo sviluppo che può derivare dal confronto con esso.

D’altra parte questa dimensione ha senso se intesa bidirezionalmente. Anche chi valuta può interessarsi o meno al candidato che sta valutando: da questo punto di vista, condividere obiettivi di conoscenza oltre che di valutazione rende i colloqui davvero dei “rapporti interessanti”. E’ uno dei primi criteri che propongo quando faccio lavori di selezione: il grado in cui il discorso con il candidato diventa interessante non è solo un criterio di valutazione dei candidati, ma anche di organizzazione di chi valuta.

attualità, Spunti teorici

Consumare risorse o produrre risorse: due culture a confronto

(…) “Comunismo e cattolicesimo, sia pure in modo diverso, rendevano il presente come funzionale al futuro. La speranza stava nel futuro. Un futuro situato nel solidarismo che preparava all’aldilà per i cattolici; situato nel cambiamento del mondo e dei destini del proletariato per i comunisti. La speranza nel futuro condizionava il comportamento ed i valori del presente. Tutto questo aveva ripercussioni di grande rilievo sui valori che reggevano il presente e sul modo di responsabilizzare le decisioni entro la vita attuale. (…)

Non sono solo i movimenti politici del nostro paese a determinare questo cambiamento. Pensiamo alla globalizzazione da un lato, allo spostamento dell’economia dalla produzione alla finanza dall’altro. Pensiamo alla profonda crisi economica che attanaglia da quasi 10 anni il mondo occidentale europeo, all’allargamento della comunità europea, all’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione che hanno cambiato radicalmente i rapporti tra persone e gruppi sociali. Il passaggio dalla speranza nel futuro alla ricerca di gratificazione nel presente sia nelle singole persone che nel sistema dei rapporti culturali. ( …)

Si è da più parte sottolineato come la speranza nel futuro motivi a sopportare il presente. Ma si è anche visto come la speranza motivi ad un impegno anche faticoso e sofferto nel presente. (…) La speranza nel futuro motiva al miglioramento sia individuale che sociale. Un miglioramento che concerne le persone e i sistemi organizzativi. Lo sviluppo , la crescita, il miglioramento, l’uso sempre più competente delle risorse, l’approfondimento delle conoscenze nell’ambito delle competenze emozionali, il miglioramento delle competenze organizzative, tutto questo appartiene ad una cultura che crede nel futuro e che è convinta del suo sviluppo. ( … )

Chi è attento soltanto al presente sviluppa di contro una atteggiamento di rapina, ove l’avidità da soddisfare è incurante del futuro, attenta solo a dare corpo alla cupidigia violenta e distruttiva di chi non si interessa minimamente a quanto succederà in quanto conseguenza del proprio operare. Per chi è attento solo al presente prevale la convinzione che ogni atto non abbia costo, sia priva di conseguenze per il futuro del contesto entro il quale si vive.

Vorrei che considerassimo attentamente questa componente del vivere solo nel presente. L’avidità che regge l’accumulo di gratificazioni materiali, indipendentemente da ogni previsione sul futuro è tipica della delinquenza, in particolare della delinquenza organizzata. ( … )

Chi vive nel presente senza cura e attenzione al futuro può essere motivato solo dall’avidità, dal consumo delle risorse senza alcuna motivazione al produrre trasformazioni del contesto utili al futuro. La trasgressione, la violazione delle regole del gioco la distruttività ingorda e irresponsabile vivono e agiscono in un presente fine a se stesso profondamente individualista, ove la dinamica delle relazioni è fondata solo sull’efficacia trasgressiva. Lo stato di diritto è stato corrotto e dissolto dal malaffare e dalla corruzione. Ciò che sembra in crisi nel nostro paese è il senso dello stato. ( … )

L’attuazione immediata dell’avidità rende impossibile il desiderare, Il desiderio comporta un progetto sul futuro, una proiezione del proprio agire entro una trasformazione finalizzata e pensata della realtà. Il desiderare è una scommessa con il futuro. (…)

casi clinici

Quanto costa la fantasia di essere perfetti; un caso di “anoressia”.

balthus2

Iris è una ragazza molto carina, minuta, sorridente. Ha 19 anni, frequenta l’ultimo anno di liceo e sta preparando gli esami di maturità. Quando la incontro la prima volta mi parla a lungo della sua ossessione per il cibo: Iris teme di essere diventata anoressica. Effettivamente me ne parla ossessivamente, nel senso che indugia in un racconto minuzioso della sua dieta, degli alimenti che può e non può mangiare, dei grammi che può ingerire.

Crede che la causa del suo disturbo siano degli episodi che l’hanno fatta soffrire. Due anni prima scopre su facebook una relazione extraconiugale di sua madre con un amico di famiglia. Iris è figlia di secondo matrimonio della mamma e si è sentita tradita e delusa, ha avuto paura di perdere la sua famiglia. Da alcuni mesi Iris ha lasciato il suo fidanzato, con cui è stata per 4 anni, presentendo la presenza di un’altra ragazza nella vita di lui. Da poco ha scoperto su facebook che la nuova fidanzata dell’ex la prende in giro con l’appellativo di “balenottera”. E’ qui che comincia a controllare rigidamente la sua alimentazione e perde 15 k in 4 mesi. Ilenia pesa ora 54 kili, un peso che definisce “ideale”. Non è un “peso nuovo”; piuttosto sembra che Ilenia abbia voluto recuperare la forma fisica che aveva prima di ingrassare progressivamente negli ultimi anni del liceo. Mi chiede di aiutarla ad uscire da questa sua ossessione per il cibo.

Le chiedo da dove venga la “diagnosi di anoressia”. Mi dice che ha fatto delle ricerche su internet e ha dedotto che il suo problema si chiama così. Un’altra scoperta fatta su internet!! Mentre Iris racconta, la immagino come se vivesse perennemente davanti allo schermo del pc; sembra che Iris dica di assistere ai rapporti, e di giudicarli chiamandosene fuori. Anche io mi sento di assistere alle vicende che Iris racconta e mi sento convocata a valutare la pertinenza delle sue conclusioni e della sua domanda di aiuto. Le faccio presente la mia sensazione. Ilenia utilizza questo spunto per raccontarmi di altri episodi: ad esempio mi dice che in seguito ad alcune crisi di pianto sia sua madre che le sue amiche la hanno esortata a rivolgersi ad uno psicologo, per poi dimenticarsene il giorno dopo; iris si sente non compresa, abbandonata, tradita, scaricata.  In opposizione a questi episodi mi parla del suo nuovo fidanzato: con lui sta bene perché lo sente simile, quindi vicino: anche lui è “un perfettino”, uno a cui piace essere lodato, ammirato.

Continuo ad utilizzare la pista dei rapporti come luogo in cui assistere ed in cui lasciare ad assistere, e le chiedo se va bene a scuola. Ilenia dice di essere sempre stata “brava”. Ha sempre fatto sport a livello agonistico, nuoto e poi karate.  Dice che la sua vita è stata tutta così… le hanno sempre detto “brava”. Tra poco avrà gli esami e non è preoccupata perché ha sempre studiato e sa che andrà bene.

Sembra proprio che l’anoressia di cui parla Iris sia un modo per denunciare quanto costa essere ideali, “perfettini”, come le piace dire. “Fammi uscire da questa gabbietta”, sembra dire Iris, che comincia ad intuire che la fantasia di essere perfetti significa lasciare gli altri a guardare, senza entrarvi mai in rapporto. Forse viene da qui la paura di Iris di essere abbandonata, tradita, scaricata. Controllare il cibo sembra un modo per assicurarsi che chi le sta vicino non la abbandoni ( me compresa ), che si occupi di lei. Un modo per controllare gli altri, al rovescio del suo essere brava, che non funziona più. Ma è anche un modo per chiedere aiuto. Un grido che spera che qualcuno si accorga che non le basta più sentirsi dire brava, ma non sa che altro fare.

Le dico questo. Ipotizziamo insieme che questa sua domanda di consulenza abbia molto a che fare con la conclusione del suo percorso di studi, nonostante Iris ci tenga a dire che gli esami non sono un problema: forse per concludere ed utilizzare 5 anni di liceo non basta essere bravi. Bisogna sapere desiderare e progettare. E per desiderare e progettare è necessario entrare in rapporto con le persone – invece di trattarle come spettatori – e con la propria storia – invece di trattarla come una performance. Le restituisco anche l’ impressione che mi chieda di starle vicino, di non scappare.  Le dico che credo di poterle stare vicino, ma non perché è “anoressica”. Il mio starle vicino implica l’interesse a ripensare insieme a lei il dilemma che mi pone, nell’idea che sia utile anche al passaggio che sta affrontando con l’esame di maturità. Iris si commuove e mi chiede di poterci incontrare ancora. Con Iris abbiamo lavorato in un percorso di consulenza durato un anno, sino al passaggio dal liceo al mondo del lavoro. Credo che questo percorso sia stato possibile grazie al non prendere sul serio la diagnosi di Iris, che sembrava l’unico modo che Iris aveva per far sì che mi interessassi a lei.  Col tempo abbiamo scoperto che si può stare insieme sull’interesse comune per qualcosa – ad esempio il suo futuro- invece che sul risultare amabili, bravi, degni di attenzione per l’altro. Non intendo dire che l’anoressia abbia sempre a che vedere con tali questioni e che possa sempre concludersi in questo modo. Certo c’è sempre un parallelismo da pensare tra il rapporto con il cibo ed il rapporto con le persone, con i contesti di appartenenza, con il mondo. Ma è un rapporto simbolico che va pensato e conosciuto ex novo nella specificità, nella univocità di ogni caso, di ogni domanda di consulenza.

Per approfondimenti:

Una interessante lettura simbolica, antropologica e storica dell’anoressia si trova in:  

Bell, R.M. ( 1998 ), La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi. Laterza Editori, Roma.

casi clinici, Scuola

Ancora su autonomia e disabilità a scuola: tracce di una difficoltà a progettare.

Ritorno a parlare del problema dell’autonomia negli interventi con la disabilità a scuola. Lo farò riportando alcuni casi che ho seguito come consulente entro scuole superiori, come formatrice di personale di assistenza alla disabilità o come supervisore.

Spesso ho incontrato nelle scuole per cui ho lavorato una evidente difficoltà a “diplomare” gli studenti con una qualche diagnosi. Sono diversi i casi di studenti fermati agli ultimi anni di scuola. Il problema del fermare compare puntualmente ogni volta che uno studente con diagnosi raggiunge il quinto ed ultimo anno di scuola. Un esempio: 

In un istituto professionale un GLH[1] straordinario viene convocato per uno studente al quinto anno, Luca, che ha seguito, anzi puntualmente disertato, un programma con obiettivi minimi, del quale per altro si dubita che Luca possa dar conto entro una verifica. Il problema è che, “data la poca voglia del ragazzo di impegnarsi in un programma di studio, seppur minimo, si è insistito su compiti di autonomia.”  Mi racconta questo episodio l’assistente specialistica di Luca entro un corso di formazione. Le chiedo quali siano questi compiti di autonomia. Mi dice di non saperlo: lei si è occupata di altro, cioè della socializzazione di Luca con la classe. Ora però nessuno sa sulla base di quali competenze diplomare Luca.

E’ sintomatico che nel racconto dell’assistente Luca sia diventato un “ragazzo”, cioè ha perso lo status di studente. La assistente tralascia anche la sua diagnosi, come se non avesse nulla a che fare con le sue difficoltà. Ipotizzo che stia parlando di un altro problema. “Fermare” nel gergo della scuola sembra il sintomo, palesemente violento nella sua vicinanza al linguaggio delle forze dell’ordine, con cui si esprime la difficoltà di dare un senso al percorso scolastico, la cui verifica diventa una minaccia da allontanare. Con gli studenti disabili diventa particolarmente evidente che i programmi scolastici rappresentano più un rito controllante che non un progetto. E se i programmi falliscono ci si appella a non meglio formalizzati percorsi di “autonomia” o “socializzazione” per poi non sapere come verificarli, cioè come licenziare/diplomare questi studenti. In altre parole gli studenti disabili riescono a mettere in crisi la fantasia che sia sufficiente la qualifica – diploma come prodotto del percorso scolastico.

Mi vengono in mente anche numerosi casi in cui gli studenti disabili alle scuole superiori vengono esclusi dalle attività di tirocinio svolte dai loro compagni, perché “hanno compiti di autonomia più urgenti su cui lavorare”. Ancora un esempio.

In una della scuole in cui ho lavorato uno studente al secondo anno, con diagnosi di ritardo lieve, segue una programmazione differenziata che mi dicono essere stata pensata per lui durante il primo anno, quando il ragazzo sembrava spaventatissimo dal nuovo contesto scolastico. Sono state escluse le materie di indirizzo (turistico) per attenuare il cambiamento e sono stati introdotti esercizi continui di copia e calcolo. La finalità dichiarata è quella di incrementare la sua autonomia (?!) prima di inserirlo nei tirocini, per evitare che questa novità lo spaventi di nuovo.

C’è da chiedersi chi è più spaventato, se il ragazzo o la scuola, che sembra impegnata ad evitare che vengano disturbate prassi istituite. Questo impegno è agli antipodi della competenza a progettare, laddove per progettare intendo la possibilità di riconoscere domande sulla cui base convenire obiettivi. In questo caso è evidente come si cerchi di evitare al ragazzo di domandare alcunché, controllandolo attraverso gli esercizi di copia e calcolo, facendo riferimento alla fantasia di autonomia come acquisizione del massimo di conformità alle attese degli altri.

Voglio dire che la presenza di disabili a scuola può diventare davvero preziosa. Per esempio in questi casi svela una difficoltà delle scuole a pensare al rapporto tra formazione e futuro degli studenti. E implica la possibilità di pensarci e di lavorarci. Una grande opportunità!teatro integrato piero gabrielli

Sempre che la scuola non viva il cambiamento che la disabilità dà occasione di progettare come una minaccia nei confronti di prassi istituite. Minaccia da tenere a bada, per esempio attraverso riti controllanti a cui si dà il nome di “autonomia” e che prendono il posto di una seria riflessione sul futuro post scolastico degli studenti; disabili e non.

[1]  Gruppo di Lavoro sull’Handicap, introdotto dalla L. 104/92 come strumento di raccordo tra territorio, scuola e famiglia, per la costruzione e verifica di piani educativi e di integrazione degli studenti disabili.

casi clinici, Scuola

La disabilità a scuola: lavorare sull’autonomia o dotare di senso eventi critici?

burattinoL’incontro tra disabilità e scuola produce una domanda a ripensare le relazioni scolastiche, che spesso rimane inevasa. La disabilità, infatti, sembra avere il potere di rivelare le enormi difficoltà che la scuola italiana ha nel rendersi conto di avere continuamente diversità da trattare. Per questo può essere trattata come evento disturbante, da arginare; oppure può diventare ciò che la psicosociologia ha chiamato analyseur [1], cioè evento critico che, usato come fonte di informazione, svela le dinamiche emozionali che organizzano i problemi della scuola.

Non è facile trovare nella scuola la competenza a trattare la disabilità come evento critico. Anche tra gli psicologi prevale una centratura sulla diagnosi e sulle tecniche di riabilitazione. La cultura con cui si tratta la disabilità è una cultura medica, anche nella scuola, che in teoria  avrebbe obiettivi molto diversi da quelli della cultura medica  ( diagnosticare – curare ).

Prendiamo la questione dell’ “autonomia”, che nella mia esperienza è il leitmotiv degli interventi sulla disabilità a scuola. Il problema è che si dà per scontato il significato di questo termine e si ignora che esso è al centro di un profondo conflitto tra disabili e coloro che vorrebbero educarli all’autonomia. Il termine deriva dal greco ( autos, propria e nomos, legge ) e significa: seguire la propria legge. Ma la legge di chi?

Per i tecnici della riabilitazione autonomia vuol dire, ad esempio, andare in bagno o vestirsi o mangiare da soli: fin qui, verrebbe da dire, menomale che c’è qualcuno che se ne occupa. Ma poi la questione si complica quando autonomia diventa, ad esempio, essere capaci di camminare per strada senza abbracciare gli sconosciuti; oppure, per un bambino diagnosticato come iperattivo, essere in grado di stare seduto in classe 5 ore. Si chiede ai disabili un adeguamento alle proprie regole di convivenza. La legge è la norma, il conformismo che regola un contesto.

Per i disabili invece autonomia vuol dire, semplicemente: libertà di sbagliare. Lo dice chiaro e tondo l’ENIL (European Network on Independent Living, associazione europea di disabili nata nel 90 ), sul cui manifesto si legge che: “Vita Indipendente ha a che fare con l’autodeterminazione. È il diritto e l’opportunità di perseguire una linea di azione ed è la libertà di sbagliare e di imparare dai propri errori, esattamente come le persone che non hanno disabilità.”[2].

Un esempio: in un terzo anno di un Istituto tecnico/professionale per il quale ho lavorato, una insegnante di sostegno si poneva come obiettivo quello di rendere Mino, un ragazzo con diagnosi di ritardo mentale lieve, capace di prendere il quaderno di matematica nell’ora di matematica, quello di italiano nell’ora di italiano, e così via. Mino invece quando vi era un cambio di docente in classe, i quaderni li prendeva tutti e li lanciava per aria! Per l’insegnante di sostegno educare Mino a prendere il quaderno “giusto” equivaleva a lavorare sulla sua autonomia e poco importava domandarsi il senso del suo comportamento. L’autonomia, una volta adottata acriticamente come obiettivo, consente di non farsi domande, anzi, intesa come adeguamento al contesto sociale, impone di non farsi domande, poiché le domande mettono in discussione le regole di contesto.

Aggiungo che nella mia carriera poche volte ho visto interrogarsi qualcuno sul senso di un comportamento di un disabile: i disabili fanno ciò che fanno perché sono disabili. Il mio lavoro dunque spesso consiste nel portare domande, invitare a leggere significati in un comportamento, considerandolo non come prodotto ovvio di una disabilità, ma come proposta di relazione. Questa competenza psicoanalitica a leggere relazioni può attenuare la violenza che spesso si sviluppa intorno al trattamento della disabilità.

Perciò nel caso di Mino ho lavorato a costruire insieme ai docenti ed alla sua classe ipotesi sul significato del suo comportamento. Pensate che un’ipotesi interessante è arrivata dai compagni di classe di Mino, che ci hanno fatto notare come Mino iniziasse a partecipare alle lezioni, a suo modo, solo verso la fine dell’ora. Il cambio di docente era perciò per lui un’interruzione di un tentativo di esserci e di mettersi in relazione con il suo contesto, una frustrazione di un desiderio di partecipazione. Un desiderio conflittuale, perché molto difficile da realizzare nella pratica per Mino.

Dotare di senso il comportamento di Mino ha consentito alla classe di riorganizzarsi per consentire a Mino di provarsi nella partecipazione. L’obiettivo non era più prendere il quaderno giusto, ma scoprire cosa poteva essere interessante per Mino e consentirgli di cimentarsi in quell’interesse. Che d’altra parte non sarebbe male come obiettivo per tutti gli studenti.

[1] Per la psicosociologia francese  l’ analizeur è quell’evento che disturba prassi istituite entro contesti organizzativi e al contempo ne è un prodotto; dunque parla delle dinamiche implicite che fondano l’organizzazione.

[2] http://www.enil.it/enil.htm

Per approfondimenti:

http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/ojs/index.php/quaderni/article/view/348

http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/ojs/index.php/quaderni/article/view/507

http://www.enil.it