attualità, casi clinici

Il cambiamento (e i molti modi per ignorarlo). Un caso.

Il tema del cambiamento è cruciale in questo momento storico e politico di grande turbolenza: rottamazioni, rivoluzioni, ripartenze prive di eredità vengono invocate con violenza e rancore. Ma quanto ha a che fare questo con il cambiamento?

Nei discorsi motivazionali spesso si racconta che nella lingua cinese la parola “crisi” – wēijī – include sia il concetto di pericolo che quello di opportunità. Non è vero, con buona pace dei motivatori; ma la realtà è anche più interessante e riguarda l’argomento di cui ci occupiamo.

In cinese la parola che indica “opportunità” è Jīhuì.

Crisiwēijī – e opportunità – Jīhuì – hanno in comune la sillaba Jī, che sta ad indicare una una situazione di cambiamento.

I cinesi sembrano sapere che il cambiamento esiste, e che ci sono modi diversi di viverlo e trattarlo.

Siamo costantemente entro contesti che cambiano; perché siamo nella storia, perché viviamo entro relazioni e queste ultime sono mutevoli, si sviluppano. Il cambiamento esiste e noi possiamo accorgercene o no, tollerarlo o no, viverlo come qualcosa che si subisce o come un processo a cui si ha il potere di partecipare, farlo divenire una crisi senza fine o una opportunità. Ciò che non è scontato, dunque, è la possibilità di dare senso ai cambiamenti con cui ci si confronta, di rintracciale fili e direzioni entro la mutevolezza delle relazioni e dei contesti, a volte confondente.

Oggi sembrano mancare proprio le categorie utili per leggere e orientare i cambiamenti in atto, che dunque diventano confusi, caotici, privi di senso, folli.

cambiamentoIn questa confusione, che implica una assenza di significati condivisi, si collocano la fantasia di rottamazione, quella di ricominciare da capo, quella di dimenticare tutto e darsi un’altra possibilità. Si tratta di fantasie distruttive quando aspirano a sbarazzarsi della complessità dei contesti, invece di comprenderle.

Si pensi, ad esempio, alla crisi che sta vivendo la democrazia, nel nostro paese e non solo. In balia della confusione connessa a cambiamenti radicali e poco esplorati nella loro dimensione culturale e pragmatica, il popolo domanda soluzioni immediate, controllanti e semplificanti, che i processi democratici non danno[1].

Se pensiamo alla complessità insita, solo per fare qualche esempio, nella globalizzazione dell’economia e delle culture, nel rapporto con risorse naturali che danno segni di esaurimento, nei fenomeni migratori, nell’acquisizione di nuovi diritti civili e nella loro progressiva estensione a persone che prima ne erano escluse, possiamo ben dire, prendendo a prestito le parole di George Bernard Shaw, che per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice: ma è sbagliata.

Dinamiche analoghe si possono vivere entro il lavoro, la famiglia, il contesto amicale, la scuola, etc. La domanda di aiuto alla psicologia – di persone, famiglie, gruppi, organizzazioni – origina sovente dalla difficoltà a costruire senso entro processi di cambiamento.

Carla, una giovane donna di 26 anni, arriva in analisi perché da alcuni mesi scoppia in pianti improvvisi di cui non capisce il motivo e che sente di non poter controllare. Questo la mette profondamente in imbarazzo nei contesti che frequenta e vorrebbe capire cosa le accade. Teme di non essere cresciuta, di essere ancora una bambina e pensa che forse sarebbe meglio rientrare in Italia, in famiglia, oppure trasferirsi in un altro paese, dove ancora non si è bruciata la reputazione a causa di questo suo atteggiamento infantile.

Da circa un anno Carla si trova all’estero, dove, dopo un tirocinio in una azienda, è stata assunta. Il suo trasferimento, intrapreso a suo tempo con grande entusiasmo, è stato l’occasione per chiudere in fretta una relazione con un uomo più grande, da cui si sentiva dipendente. Negli ultimi mesi sta frequentando un suo collega di lavoro, che le piace, anche se dubita che potrà mai provare il trasporto che viveva nella relazione precedente. Mentre lo racconta piange, ma non come una bambina che cerca conforto materno.

Forse il problema di Carla è esattamente il contrario di quello che lei ipotizza.

Le chiedo a cosa associ il pianto, oltre che all’infanzia. Mi dice che le viene in mente il lutto, cioè la perdita di qualcuno o qualcosa. Forse ciò che Carla sta perdendo è proprio la sua parte infantile. Si sta rendendo conto di essere dentro rapporti simmetrici, dove lei non gioca più la parte della bambina da accudire, ma dove si trova confrontata con relazioni e contesti che le chiedono qualcosa. E sembra che si stia rendendo conto che ha le capacità per stare dentro questi rapporti. Questa ipotesi, che Carla accoglie con meraviglia, ma anche con gratitudine, apre alla possibilità di esplorare i suoi contesti, che pure stanno cambiando: per esempio al lavoro le stanno chiedendo di occuparsi di un nuovo progetto su cui si sta investendo molto; di questo progetto Carla comincia a chiedersi il senso, invece di preoccuparsi di esserne all’altezza. Mentre nella sua famiglia la malattia degenerativa di cui soffre sua madre la sta confrontando con una posizione accudente, che sta facendosi largo tra le vecchie pretese di essere accudita.

Questo caso dice del rischio enorme che l’ignoramento dei cambiamenti comporta: la difficoltà di vedere il passaggio cruciale che stava sperimentando avrebbe potuto portare Carla a sprecare il lavoro prezioso che aveva fatto sino a quel punto.

Ora pensiamo, più in generale, ai principali contesti di appartenenza con cui siamo confrontati ed al loro mutamento vorticoso e confuso negli ultimi 30 anni. Sta cambiando la famiglia, in quanto soggetto sociale investito di aspettative e mandati: per esempio non c’è più una sola famiglia, i figli non rappresentano più il destino e la finalità dell’essere famiglia, e si fa fatica a trovare nuovi significati. Sta cambiando anche il lavoro, non solo nelle forme che i mercati assumono, ma nel suo significato: la flessibilizzazione e la globalizzazione hanno cambiato radicalmente il rapporto tra i lavoratori e le loro organizzazioni di appartenenza.

Si tratta di situazioni di cambiamento in cui ci si può vivere immobili, esclusi, perché non si hanno categorie per comprenderle, contestualizzarle, averci a che fare, costruire alternative. La psicoanalisi può occuparsi di costruire queste categorie insieme con chi desidera sentirsi partecipe del cambiamento dei propri contesti.

 

NOTE:

[1] O non dovrebbero dare. Possiamo anzi dire che la crisi della democrazia inizia proprio quando questa promette soluzioni semplici e immediate, screditando il dibattito tra posizioni ed idee differenti, proposto come lungo, inutile e dispendioso, e delegittimando tutte le istituzioni che garantiscono e governano questo dibattito.

casi clinici, Lavoro, Senza categoria

Come cambia il rapporto tra medicina e società: una prospettiva psicologica sulle nuove domande di salute.

…“Oggi, i medici sono chiamati sempre di più ad occuparsi di malattie croniche e di invalidità, dalle quali, per definizione, non si guarisce. E non si ha a che fare con la guarigione nemmeno nella cosiddetta medicina preventiva o nella assistenza al fine vita. Entro queste aree di intervento, il medico non è più colui che ripristina uno stato di salute, che elimina la malattia. E non è così immediatamente chiaro cosa diventi, altrimenti, nel rapporto con i suoi pazienti, da un punto di vista simbolico e relazionale; e neppure cosa diventino per lui i suoi pazienti. La formazione in medicina, per esempio, non tiene conto di questi aspetti e, se da una parte si aggiorna continuamente in base alle nuove conoscenze scientifiche, dall’altra fa come se potesse prescindere dai mutamenti psicosociali entro cui opera il medico, lasciandolo spesso agganciato a dimensioni mitiche della medicina, impassibili al cambiamento.” …

Di Sonia Giuliano

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 rapporto-medico-paziente

Dalla collaborazione tra Psicoanalisi e Convivenza e Assis, nasce un articolo che si interroga sul rapporto medico – paziente, a partire dai numerosi sintomi che sembrano segnalarne la crisi di fiducia.

Assis è un’associazione che riunisce medici ed altri professionisti interessati a pensare questi eventi critici per farli diventare opportunità di sviluppo e cambiamento; il suo presupposto è quello della libertà di cura, che potremmo riassumere così:

“I medici non esistono perché esiste la malattia, esistono perché c’è qualcuno che si pensa malato. Non rispondono ad un bisogno, ma ad una domanda e non possono svilupparsi se non tenendo conto di questa.” ( Giuliano S. )

E proprio l’esplorazione degli aspetti simbolici di questa domanda potrebbe diventare una delle strade più promettenti su cui avviare una collaborazione tra medicina e psicologia.

Bibliografia:

Canguilhem, G. (1966). Il normale e il patologico. Milano: Einaudi.

Carli, R. (2012). Il tirocinio in ospedale. Rivista di psicologia clinica, 1, pp 3 – 20.

Carli, R., & Paniccia, R.M. (2004) Analisi della domanda. Teoria e tecnica dell’intervento in analisi della domanda. Bologna: Il Mulino.

Casement, P. (1989). Apprendere dal paziente. Torino: Raffaello Cortina Editore.

Di Ninni, A. (2011). L’apporto della domanda dei servizi alla costruzione dell’identità professionale degli psicologi. Rivista di psicologia clinica, 2, 38-44.

Fornari, F. (1976). Simbolo e codice. Dal processo psicoanalitico all’analisi istituzionale. Milano: Feltrinelli.

Giuliano, S. ( 2015). Alternative alla cultura del candidato ideale: la selezione di aspiranti medici. Blog Psicoanalisi e Convivenza. www.psicoanalisieconvivenza.com.

Giuliano, S. ( 2016). Vaccini, allattamento e dintorni; alcuni campi su cui si gioca la ridefinizione del rapporto tra la medicina e i suoi pazienti. Blog Psicoanalisi e convivenza. www.psicoanalisieconvivenza.com

casi clinici, Lavoro

Lo stress lavoro correlato: una colpa delle organizzazioni o una occasione di sviluppo?

lavorare stanca

Per i lavoratori dirsi stressati sta diventando sempre di più il modo per esprimere una difficoltà sul lavoro. D’altra parte, come tutte le diagnosi entrate nel gergo comune – pensate anche alla inflazionatissima ansia – lo stress lavoro correlato è un costrutto per nulla univoco e tutto da capire.

Certamente vi sono teorie e approcci di intervento codificati, diversi tra loro, che tentano di spiegare e trattare lo stress da lavoro. Per lo più si può distinguere tra chi enfatizza il ruolo di agenti esterni nella sua genesi e chi il ruolo delle fragilità individuali. Nel primo caso lo stress sarebbe una condizione di malessere dei lavoratori provocata da caratteristiche dell’ambiente di lavoro ( ad esempio turni, orari, carico di lavoro, logistica degli uffici, contratto, stabilità, etc ). Nel secondo caso sarebbe determinata da caratteristiche soggettive ( fragilità individuali, esperienze pregresse, vita familiare, etc ) che porterebbero a percepire più facilmente come stressanti alcuni stimoli.

Va per la maggiore chi incrocia questi due fattori: un po’ gli stimoli esterni sono stressanti, un po’ chi si lascia stressare qualche problema ce l’ha di suo[1]. Ma se si entra in una organizzazione interessata a trattare il problema dello stress ci si rende conto che la questione è ben più complessa e interessante di così.

Alcuni mesi fa un sindacato del territorio barese, la UIL PA[2], ha organizzato un convegno per parlare di stress da lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Gli organizzatori mi hanno invitato a portare un punto di vista psicologico sulla questione, nell’idea di informare i lavoratori su un fenomeno a loro avviso molto diffuso, ma poco riconosciuto come problema. Il convegno, rivolto ai lavoratori delle PA locali, vedeva tra i relatori sindacalisti, medici, avvocati.

Ho accettato l’invito molto volentieri e con curiosità, per diversi motivi.

Primo motivo: mi piaceva il titolo dell’evento: “Il lavoro è salute”; lo trovavo, nella sua semplicità, una sconferma di uno stereotipo molto diffuso sul lavoro, che viene simbolizzato come qualcosa che toglie salute, che sottrae risorse ed energie. Mi piaceva partecipare ad affermare che il lavoro può anche essere qualcosa che produce risorse ed energie, quindi salute.

Secondo motivo: mi ha molto incuriosito l’interesse di un sindacato a parlare di stress sul lavoro. L’ho trovato un interesse inedito, particolare, in un momento in cui l’istituzione sindacale vive una crisi di partecipazione e di funzione. Per esempio in Italia, stando alle ultime statistiche, seppure il numero complessivo di iscritti ai sindacati cresce, per metà si tratta di pensionati ( 6 milioni su 12 circa ); il nuovo mercato del lavoro non si fa rappresentare dai sindacati tradizionali. I lavoratori sono in conflitto con i contesti lavorativi di appartenenza, ma senza riconoscersi in altro, come avveniva per esempio negli anni 70. E’ un conflitto solitario, spesso silente e agito nella quotidianità del rapporto con la gerarchia, in cui il cruccio è la difesa di diritti e vantaggi individuali. Sta venendo meno il senso di appartenenza a contesti che fondano l’identità del lavoratore, compresi i sindacati[4].

Non sto parlando solo della crisi dei sindacati, ma anche dello stress che è una crisi dei rapporti lavorativi. Lo stress lavoro correlato può intendersi infatti come il sintomo di una cultura del lavoro disfunzionale, per esempio una cultura organizzativa in cui ciascun lavoratore si vive solo, magari in competizione con i colleghi e assoggettato alla gerarchia; cioè senza possibilità di socializzare una difficoltà in un modo produttivo.

E questo è un punto emerso con evidenza nel corso del convegno. Mi colpiva per esempio l’intervento di un medico Inail che si occupa di esaminare le domande di malattia professionale che pervengono dai lavoratori: evidenziava come molti lavoratori si sentano sollevati semplicemente nel potere parlare con qualcuno della loro difficoltà, nel poter dire a qualcuno: “sto male, credimi!”

Parlare con qualcuno: questa sembra la cosa vissuta come impossibile in molte organizzazioni di lavoro. Nonostante vi siano referenti, anche dei sindacati, che svolgerebbero la funzione di punto di riferimento per i lavoratori in difficoltà. Nonostante vi siano sportelli che si propongono come baluardi contro il mobbing, il bossing, etc. Funzioni ed iniziative utilizzate poco e niente dai lavoratori. Non c’è nulla da fare: la propria organizzazione di lavoro è vissuta come luogo in cui e su cui parlare è inutile, anzi pericoloso; per esempio perché si temono ripercussioni, ritorsioni o accuse.

E’ lo stesso motivo per il quale gli interventi sullo SLC, obbligatori per legge, spesso vengono trattati come fastidiosi adempimenti da liquidare con il minimo di investimento possibile. Per esempio nelle pubbliche amministrazioni del territorio barese non si è mai andato oltre il primo livello di intervento previsto dalla legge, ossia la valutazione di quei parametri del contesto lavorativo che vengono considerati oggettivi, come le caratteristiche strutturali dei luoghi di lavoro. In queste valutazioni, operate dai dirigenti aziendali, il quadro appare idilliaco, ma, considerando le risorse scarsissime della PA, viene un po’ a tutti il sospetto che queste valutazioni siano di mano particolarmente generosa per evitare di passare al livello successivo previsto dalla legge, ossia parlare con i dipendenti, chiedere loro cosa non va. Appunto.

Ma perché parlare è così pericoloso? Se ritorniamo un attimo a quelle due ipotesi che circolano sullo stress lo si capisce subito: se lo stress è una dimensione causata da agenti esterni oggettivamente stressanti, oppure da caratteristiche individuali che rendono particolarmente sensibili alcuni soggetti, allora è chiaro che conviene parlare il meno possibile, poiché o si cercano i difetti dell’azienda o si cercano i difetti individuali. Insomma parlare vorrebbe dire lamentarsi, o recriminare, o accusare, o difendersi.

E se invece poter parlare di una difficoltà fosse una risorsa per la comprensione di problemi organizzativi e quindi per lo sviluppo dell’organizzazione?

E’ qui, credo, che vada studiato e compreso il problema dello SLC, nelle dimensioni organizzative di un contesto di lavoro, dove per organizzazione[5], intendo il modo in cui la simbolizzazione affettiva del contesto di lavoro organizza relazioni, regole, obiettivi e finanche elementi più strutturali, come la comodità e l’estetica dei luoghi di lavoro[6].

Per esempio nei vari colloqui con i sindacalisti che hanno organizzato l’evento ( che, ricordo, sono lavoratori nelle PA ) abbiamo costruito l’ipotesi che una dimensione simbolica stressogena che organizza le pubbliche amministrazioni è la fantasia che non sia possibile lo sviluppo; quindi il vissuto di essere bloccati nel proprio lavoro. Una organizzazione immobile, priva di motivi per crescere, priva di possibilità di evolvere. Fantasia che credo riguardi tutti i livelli della gerarchia e che, per esempio, è riscontrabile nel leitmotiv del risparmio, che sembra essere diventato l’obiettivo di molti top manager. Ma pensare che l’obiettivo di una organizzazione possa essere risparmiare è un suicidio organizzativo. Risparmiare non è mai un obiettivo. Certamente si deve entrare nell’ottica che pure le PA, come tutte le organizzazioni, sono sistemi a risorse scarse, cioè che non hanno risorse infinite a cui attingere.

Ma si potrebbe anche iniziare a pensare che si risparmia non quando si tagliano le spese, ma per esempio, quando il cliente di una organizzazione è soddisfatto dei prodotti e dei servizi forniti; quando c’è un rapporto di fiducia tra organizzazione e clienti[7]. Quando l’organizzazione fonda la sua esistenza, non dandola per scontata, sulla soddisfazione del cliente.

Viversi come funzionali allo sviluppo di un cliente è un prezioso fattore di protezione contro lo stress da lavoro, poiché dà all’organizzazione e a chi vi lavora un motivo per evolvere, per crescere, per progettare. In altre parole avere in mente e a cuore un cliente è un antidoto contro l’immobilità, contro l’assenza di prospettive. E le PA hanno molta strada da fare in questo senso.

Anche per i sindacati c’è tanta strada che si può fare e lo Stress Lavoro Correlato può essere una risorsa: può diventare un’occasione di cambiamento se ci si mette nell’ottica di favorire lo sviluppo organizzativo, superando la dispendiosa contrapposizione tra organizzazione e lavoratore. In quest’ottica lo stress può diventare, invece che un’ arma da impugnare contro l’organizzazione, un feedback utile a pensare le criticità organizzative che bloccano lo sviluppo.

 

[1] In realtà si tratta di una banalizzazione ( molto frequente, ahimè, anche tra i professionisti che si occupano di SLC ) di una proposta teorica interessante, sintetizzata pressappoco così da Lazarus e Folkman: lo stress si verifica quando l’ambiente di lavoro viene vissuto come gravoso, come richiedente più di ciò che il lavoratore può offrire. Questa posizione sottolinea un aspetto interessante: lo stress come prodotto di una relazione tra il contesto di lavoro ed i lavoratori, i quali simbolizzano e vivono in un certo modo l’organizzazione lavorativa. La relazione di cui si parla è la simbolizzazione del contesto e non il rapporto tra caratteristiche individuali e caratteristiche del contesto. Eppure è molto difficile tenere questa differenza. Per esempio nel testo sullo SLC dell’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza dei Lavoratori lo stress diventa quella condizione causata da un ambiente di lavoro che chiede più di quanto i lavoratori possano dare; in quel testo, rispetto alla definizione di Lazarus e Folkman, è scomparso il vissuto ed è rimasta l’organizzazione di lavoro che chiede troppo. Resta poi il problema di definire quel “troppo” e di promuovere un intervento che non sia vissuto dalle organizzazioni stesse come una individuazione di colpe.

[2] Unione Italiana del Lavoro Pubblica Amministrazione; http://bari.uilpa.it/

[4] Un esempio sul mutato contesto culturale e socio-economico. Qualche mese fa Marchionne, dopo anni di aspra conflittualità con sindacati e non solo, ha introdotto un nuovo sistema retributivo, fondato su premi di produttività, tra il plauso dei dipendenti FIAT e di quasi tutte le sigle sindacali ( FIOM a parte che contesta l’utilizzo di fondi che dovevano essere destinati ad aumenti salariali bloccati da molti anni ). Alcuni decenni fa – anni 70- il capo del personale della Pirelli offriva ai dipendenti un aumento salariale addirittura superiore a quello chiesto dai sindacati. Invece che un applauso si guadagnò insulti e proteste perché i lavoratori sentirono che, nello scavalcare i sindacati, veniva messo in discussione un fondamentale senso di appartenenza alla categoria operaia e si tentava di comprare un’alleanza con il potere.

[5] Per un approfondimento teorico si veda Renzo Carli, Rosa Maria Paniccia, Fiammetta Giovagnoli, L’organizzazione e la dinamica inconscia, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 2/2010, pp. 183-204, doi: 10.1423/32442 http://www.rivisteweb.it/doi/10.1423/32442

[6] C’è uno strettissimo rapporto tra dimensioni strutturali e dimensioni simboliche. Ho lavorato in un carcere romano dove qualsiasi sedia su cui ci si posava era di una scomodità imbarazzante. Non è certamente un errore, ma una dimensione strutturale legata alla simbolizzazione del carcere come luogo che non si deve desiderare, che quindi deve essere scomodo, ostile. E si potrebbe andare avanti a parlare della struttura delle scuole, degli ospedali…

[7] Non sono a conoscenza di ricerche serie sulla fiducia tra PA e clienti o sulla reputazione delle PA, ma presumo che i risultati sarebbero non troppo confortanti; quando ho diffuso la notizia di questo convegno tra le mie conoscenze in molti, tutti inevitabilmente clienti delle PA, hanno risposto pressappoco così: “stress nelle amministrazioni pubbliche?! Ma se non fanno niente!”

casi clinici, famiglia

Donna, madre, e…? Riflessioni sul rapporto tra il dentro ed il fuori della famiglia.

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Negli ultimi giorni, come sempre accade intorno all’8 marzo, sono comparsi molti articoli riguardo la condizione, i problemi e i vissuti della donna nella società contemporanea.

Hanno parlato anche alcuni psicoanalisti illustri, come Massimo Recalcati, di cui segnalo l’articolo comparso su repubblica il 28 febbraio:

Ciao figlio. E’ tempo della mamma narciso.              http://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2015/03/Ciao-figlio.pdf

Si parla del rapporto tra la donna e la madre; un rapporto conflittuale secondo Recalcati, in cui, a seconda del periodo storico ha la meglio l’una o l’altra componente dell’identità. Nella società patriarcale la donna era sacrificata alla madre, la quale esisteva per i figli, per la famiglia. Deriva di questo sacrificio era una spinta a fondersi con i figli, una difficoltà a separarsene, una tendenza fagocitante, controllante. La patologia del materno, dice Recalcati, era la trasfigurazione dell’accudimento in una gabbia dorata in cui non è prevista separazione.

Oggi, mutate le condizioni sociali, la donna non reclama più il possesso dei propri figli, ma rivendica la possibilità di liberarsene, di volere altro per sé, di guardare altrove. La madre narcisista che considera i figli un peso mortificante, a dire di Recalcati è la nuova patologia del materno: “Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna.”

Leggendo l’articolo pensavo insistentemente a Dalila, una donna di circa 40 anni, sposata, con due figli. Mi chiese una consulenza perché non riusciva più a gestire sua figlia quattordicenne: stava iniziando a truccarsi e a vestirsi in modo molto provocatorio, frequentava compagnie “pericolose” di ragazzi molto più grandi e a scuola rischiava una seconda bocciatura. Temeva che sua figlia avesse qualche problema, aveva paura che finisse in qualche brutto giro, che qualcuno fraintendesse la sua spigliatezza e ne approfittasse.

Dalila era una donna di bell’aspetto. Una bellezza che sembrava volutamente addomesticata nell’ordine sobrio della pettinatura e del vestiario scuro.

Al primo colloquio per un’ora intera parlò di sua figlia e di quanto le facesse paura l’esplosione della sua seduttività, del suo desiderio. Il desiderio di chi? – mi chiedevo mentre parlava.

Allora le chiesi cosa facesse nella vita: di cosa si occupava, cosa le piaceva? Sembrò spiazzata da questa domanda, quasi infastidita, come se stessi violentemente spostando i riflettori dal palcoscenico al regista dietro le quinte.   Mi disse che faceva la mamma e la moglie e che non aveva tempo per altro. Si era sposata molto giovane; le sarebbe piaciuto lavorare, ma non sa che cosa avrebbe potuto fare. A scuola era una “capra”, l’unica cosa che sapeva fare era creare dei gioielli artigianali. Ma ormai non avrebbe saputo da dove cominciare. Forse avrebbe dovuto continuare? – si domandò a fine colloquio. Forse non avrebbe dovuto lasciarsi mettere in gabbia? Ecco – dice – si sente in gabbia e vorrebbe scappare. Mi chiese se pensavo che avrebbe dovuto lasciare sua figlia al suo destino per occuparsi finalmente di sé stessa.

Dalila aveva iniziato dalla trasgressività di sua figlia per parlare della sua trasgressività.

Era passata nel corso di un colloquio ( e non nel corso di un secolo ) dalla madre fagocitante e controllante messa in scacco dalla figlia ribelle ( unico destino possibile della madre che incorpora ) alla madre che rivendica la sua libertà e che desidera liberarsi dei figli.

E cercava di mettere in gabbia anche me, chiedendomi di avallare l’una o l’altra strada e di semplificare così un problema molto complesso. Potremmo dire che il “fagocitare/espellere” è una modalità dell’inconscio per semplificare la complessità emozionale delle relazioni. Sono due facce della stessa medaglia.

E non credo che il problema fosse, seguendo Recalcati e anche un po’ il buon senso, quello di “connettere generativamente l’essere madre e l’essere donna”, ma piuttosto quello di riconoscere la complessità dei desideri e delle paure in gioco.

Pensiamo alla figlia quattordicenne di Dalila, che evidentemente seduceva anche la madre con i suoi comportamenti, cioè la legava a sé facendola preoccupare; e contemporaneamente ne provocava il desiderio nascosto di trasgressione, sollecitandolo. E che era anche altro oltre che figlia: per esempio era una ragazza che temeva di confrontarsi con i passaggi evolutivi ( era la seconda volta che rischiava di non farsi ammettere agli esami di terza media ) e che si spostava artificiosamente in avanti attraverso l’uso del corpo e delle relazioni.

Pensiamo a Dalila che si sentiva incastrata nel ruolo di madre e al contempo sollecitata nella suo stesso desiderio di trasgressione; che si sentiva in gabbia non tanto perché costretta dall’atteggiamento della figlia, ma perché la figlia le ricordava che, anche lei, non sapeva cosa altro desiderare, verso quale futuro guardare.

Più che connettere il ruolo di madre ( o figlia ) e di donna direi che oggi la sfida è quella di riempire di senso questi titoli, riconoscendo di essere anche altro. Cittadina, per esempio; ingegnera, insegnante, operatrice ecologica, segretaria. Una giovane donna che sapeva realizzare gioielli artigianali. Una ragazza che ha paura del futuro. E partire da lì per immaginare il futuro, per pensarlo, progettarlo, costruirlo. E’ dentro questa possibilità che ci si accorge che la contrapposizione – culturale – tra madre, donna e “qualsiasialtracosa” è fasulla e che, anzi, solo sentendosi anche altro è possibile sentirsi madri e donne.

E, perché no, padri e uomini. Intendo dire che il discorso può svolgersi anche al maschile. Tuttavia è più raro che ci si ponga il problema del rapporto tra uomo e padre ( caso mai si parla della paternità in sé ) perché il discorso culturale dà per scontato che si sia anche altro oltre che uomo e padre. Mentre per la donna evidentemente non è ancora così.

Ma il punto è che oggi è culturalmente difficile investire su altro che non sia la famiglia. Ed è difficile per le famiglie realizzare che la propria funzione è quella di preparare i suoi membri ad avere a che fare col fuori, ad investire su obiettivi esterni. L’illusione è che si possa stare dentro, pensarsi dentro, al riparo, tutta la vita. E che si debba lavorare per renderlo il migliore dentro possibile.

E’ questa implosione che organizza rapporti violenti e impossibili nelle famiglie. E’ pensarsi solo madri o padri che rende impossibile essere genitori. E’ pensarsi solo donna o uomo che rende impossibile essere persone, coniugi, cittadini, lavoratori, … Ciascuno continui come vuole.

casi clinici, Lavoro

Alternative alla cultura del “candidato ideale” : la selezione di aspiranti medici.

selezioneNel 2013 ho lavorato per la facoltà di medicina di una prestigiosa università che seleziona i suoi studenti attraverso prove di ingresso scritte e orali. Mi chiedevano di aiutare le commissioni, composte da professori dell’università, a valutare i candidati che aspiravano a diventare studenti di quella facoltà. Cercavano studenti che avrebbero portato avanti l’università con profitto ed impegno e che sarebbero diventati medici eccellenti.

E’ una cultura diffusa quella dell’ “uomo giusto al posto giusto”. Forse qualche collega la troverebbe di buon senso e lavorerebbe a colloqui attitudinali atti a misurare quelle caratteristiche che si presumono alla base di una brillante carriera da studente di medicina prima e da medico poi. Anche quelle caratteristiche, però, le dovrebbe definire in base al buon senso perché non esistono evidenze scientifiche sul rapporto tra caratteristiche individuali, a prescindere da relazioni, e percorso formativo/professionale. Quest’ultimo si costruisce entro incontri, attese, contesti, culture; non è certo inscritto in qualche evoluzione psicologica del DNA.

Allora gran parte del mio lavoro fu quello di capire con i docenti con cui lavoravo che attese avessero nei confronti di questi studenti e perché. E scoprimmo molte cose interessanti, utili a fare un buon lavoro nell’incontro con i candidati. Un lavoro che era sì di valutazione, ma che poteva diventare anche un feedbeck per l’università, per il suo sviluppo, per il suo progetto formativo.

Fu centrale, ad esempio, ripensare alla crisi del rapporto medico-paziente che questi professionisti – oltre che professori – vivevano non senza disagio e rabbia. Un rapporto che fino agli anni settanta era fondato sul potere assoluto del medico a cui il paziente necessariamente si affidava, in modo passivo e fiducioso. La passività era dovuta all’essere in rapporto con il detentore di una tecnica e di un sapere di cui non si conosceva nulla e nella quale si sperava in funzione della propria salute. Un docente, giovane primario di chirurgia presso un ospedale romano, mi disse scherzosamente: “Dottoressa io quando visito parlo in latino, così i pazienti non capiscono niente e non mi fanno domande!”. Quel medico era figlio di un più famoso e anziano chirurgo che certamente, ai suoi tempi era abituato a non ricevere domande, osservazioni, commenti dai suoi pazienti.

Oggi le cose sono molto cambiate. Si pensi anche solo a come ha modificato questo scenario l’avvento di internet. Oggi molti ricorrono alla rete per autodiagnosticarsi e curarsi, per informarsi, per verificare le competenze del medico. Il paziente non è più colui che non sa. Si pensi anche alla istituzione del Tribunale del malato, agli audit sulle prestazioni sanitarie, alla medicina difensiva, all’introduzione del consenso informato. Azioni, queste che reagiscono alla squilibrio di potere nel rapporto medico paziente, cercando di dare potere al paziente. Azioni che hanno anche prodotto in questo rapporto una crescente e a volte violenta e improduttiva conflittualità e che hanno alimentato la diffidenza reciproca.

E allora il problema è: in rapporto a questi problemi quali competenza cercare e quali provare a costruire negli aspiranti medici che venivano selezionati? Cosa vuol dire “eccellenza” in questo scenario? E ancora, cosa restituire a questi candidati per impostare il loro percorso di studi? Quali feedbeck fornirgli per stimolare quale progetto professionale? E su cosa puntare nella formazione universitaria?

Come si vede siamo molto lontani dall’idea iniziale di “selezionare i candidati migliori”. Una idea impossibile, perché il “candidato migliore” non esiste, è una fantasia, un sintomo di una organizzazione con dei problemi e non un progetto di sviluppo di quella organizzazione.

Nel corso del lavoro convenimmo su due criteri che sembrarono a tutti molto importanti per lo sviluppo della professione medica.

Il primo riguardava la possibilità di scardinare tra i candidati il mito di una medicina potente e buona, interamente fondata sul fare il bene del paziente, sull’aiuto, sul valore della solidarietà, sul salvare la vita; non perché quello dei medici non possa essere un progetto altruistico, ma perché questi presupposti, da soli, non ammettono altri organizzatori del rapporto all’infuori della fiducia e della gratitudine da parte del paziente e della soddisfazione onnipotente da parte del medico. In altre parole un obiettivo dei colloqui è stato quello di verificare la disponibilità ad abbandonare il mito per informarsi e conoscere la realtà dei contesti della medicina, la sua storia, le sue condizioni attuali.

E qui veniamo al secondo punto. Se si esce dal mito e si incontra la realtà, quella fatta di conflittualità e di un rapporto non più scontato tra medico e paziente, diventa molto importante avere competenza relazionale e organizzativa. Che vuol dire? E come si valuta? Si tratta di una competenza complessa che definirei in generale come capacità a stare dentro una relazione, ad interessarsi ad essa, a svilupparla. Chi ha competenza organizzativa in un rapporto professionale rinuncia a partire dal potere scontato per organizzare il proprio ruolo e quello del paziente/cliente ed è in grado di costruire una relazione di fiducia e interesse reciproco nella contestualità di ogni rapporto. Chi ha competenza organizzativa non simbolizza il proprio paziente/cliente come una minaccia/salvezza/promessa e quindi non se ne difende; cerca invece di conoscerlo, di ascoltare la sua domanda, di mettere in rapporto le sue competenze con quella domanda. E come si può valutare questa competenza in un colloquio? A partire dalla relazione nel qui ed ora, tra i candidati e chi valuta, che può oscillare tra due poli: COMPIACENZA           CONTESTUALITA’

Si può differenziare tra chi è capace di interessarsi del confronto che viene a crearsi nel qui ed ora e chi invece è totalmente preso dalla dimensione valutativa, proponendo un rapporto fondato su ciò che immagina come aspettative del selezionatore. La compiacenza è certamente inevitabile e segno di adattamento in un contesto di valutazione, quando però diventa una dimensione pervasiva ostacola il rapporto; qualsiasi rapporto, poiché comporta un disinteresse totale non solo per l’interlocutore, ma per la crescita e lo sviluppo che può derivare dal confronto con esso.

D’altra parte questa dimensione ha senso se intesa bidirezionalmente. Anche chi valuta può interessarsi o meno al candidato che sta valutando: da questo punto di vista, condividere obiettivi di conoscenza oltre che di valutazione rende i colloqui davvero dei “rapporti interessanti”. E’ uno dei primi criteri che propongo quando faccio lavori di selezione: il grado in cui il discorso con il candidato diventa interessante non è solo un criterio di valutazione dei candidati, ma anche di organizzazione di chi valuta.

casi clinici

Quanto costa la fantasia di essere perfetti; un caso di “anoressia”.

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Iris è una ragazza molto carina, minuta, sorridente. Ha 19 anni, frequenta l’ultimo anno di liceo e sta preparando gli esami di maturità. Quando la incontro la prima volta mi parla a lungo della sua ossessione per il cibo: Iris teme di essere diventata anoressica. Effettivamente me ne parla ossessivamente, nel senso che indugia in un racconto minuzioso della sua dieta, degli alimenti che può e non può mangiare, dei grammi che può ingerire.

Crede che la causa del suo disturbo siano degli episodi che l’hanno fatta soffrire. Due anni prima scopre su facebook una relazione extraconiugale di sua madre con un amico di famiglia. Iris è figlia di secondo matrimonio della mamma e si è sentita tradita e delusa, ha avuto paura di perdere la sua famiglia. Da alcuni mesi Iris ha lasciato il suo fidanzato, con cui è stata per 4 anni, presentendo la presenza di un’altra ragazza nella vita di lui. Da poco ha scoperto su facebook che la nuova fidanzata dell’ex la prende in giro con l’appellativo di “balenottera”. E’ qui che comincia a controllare rigidamente la sua alimentazione e perde 15 k in 4 mesi. Ilenia pesa ora 54 kili, un peso che definisce “ideale”. Non è un “peso nuovo”; piuttosto sembra che Ilenia abbia voluto recuperare la forma fisica che aveva prima di ingrassare progressivamente negli ultimi anni del liceo. Mi chiede di aiutarla ad uscire da questa sua ossessione per il cibo.

Le chiedo da dove venga la “diagnosi di anoressia”. Mi dice che ha fatto delle ricerche su internet e ha dedotto che il suo problema si chiama così. Un’altra scoperta fatta su internet!! Mentre Iris racconta, la immagino come se vivesse perennemente davanti allo schermo del pc; sembra che Iris dica di assistere ai rapporti, e di giudicarli chiamandosene fuori. Anche io mi sento di assistere alle vicende che Iris racconta e mi sento convocata a valutare la pertinenza delle sue conclusioni e della sua domanda di aiuto. Le faccio presente la mia sensazione. Ilenia utilizza questo spunto per raccontarmi di altri episodi: ad esempio mi dice che in seguito ad alcune crisi di pianto sia sua madre che le sue amiche la hanno esortata a rivolgersi ad uno psicologo, per poi dimenticarsene il giorno dopo; iris si sente non compresa, abbandonata, tradita, scaricata.  In opposizione a questi episodi mi parla del suo nuovo fidanzato: con lui sta bene perché lo sente simile, quindi vicino: anche lui è “un perfettino”, uno a cui piace essere lodato, ammirato.

Continuo ad utilizzare la pista dei rapporti come luogo in cui assistere ed in cui lasciare ad assistere, e le chiedo se va bene a scuola. Ilenia dice di essere sempre stata “brava”. Ha sempre fatto sport a livello agonistico, nuoto e poi karate.  Dice che la sua vita è stata tutta così… le hanno sempre detto “brava”. Tra poco avrà gli esami e non è preoccupata perché ha sempre studiato e sa che andrà bene.

Sembra proprio che l’anoressia di cui parla Iris sia un modo per denunciare quanto costa essere ideali, “perfettini”, come le piace dire. “Fammi uscire da questa gabbietta”, sembra dire Iris, che comincia ad intuire che la fantasia di essere perfetti significa lasciare gli altri a guardare, senza entrarvi mai in rapporto. Forse viene da qui la paura di Iris di essere abbandonata, tradita, scaricata. Controllare il cibo sembra un modo per assicurarsi che chi le sta vicino non la abbandoni ( me compresa ), che si occupi di lei. Un modo per controllare gli altri, al rovescio del suo essere brava, che non funziona più. Ma è anche un modo per chiedere aiuto. Un grido che spera che qualcuno si accorga che non le basta più sentirsi dire brava, ma non sa che altro fare.

Le dico questo. Ipotizziamo insieme che questa sua domanda di consulenza abbia molto a che fare con la conclusione del suo percorso di studi, nonostante Iris ci tenga a dire che gli esami non sono un problema: forse per concludere ed utilizzare 5 anni di liceo non basta essere bravi. Bisogna sapere desiderare e progettare. E per desiderare e progettare è necessario entrare in rapporto con le persone – invece di trattarle come spettatori – e con la propria storia – invece di trattarla come una performance. Le restituisco anche l’ impressione che mi chieda di starle vicino, di non scappare.  Le dico che credo di poterle stare vicino, ma non perché è “anoressica”. Il mio starle vicino implica l’interesse a ripensare insieme a lei il dilemma che mi pone, nell’idea che sia utile anche al passaggio che sta affrontando con l’esame di maturità. Iris si commuove e mi chiede di poterci incontrare ancora. Con Iris abbiamo lavorato in un percorso di consulenza durato un anno, sino al passaggio dal liceo al mondo del lavoro. Credo che questo percorso sia stato possibile grazie al non prendere sul serio la diagnosi di Iris, che sembrava l’unico modo che Iris aveva per far sì che mi interessassi a lei.  Col tempo abbiamo scoperto che si può stare insieme sull’interesse comune per qualcosa – ad esempio il suo futuro- invece che sul risultare amabili, bravi, degni di attenzione per l’altro. Non intendo dire che l’anoressia abbia sempre a che vedere con tali questioni e che possa sempre concludersi in questo modo. Certo c’è sempre un parallelismo da pensare tra il rapporto con il cibo ed il rapporto con le persone, con i contesti di appartenenza, con il mondo. Ma è un rapporto simbolico che va pensato e conosciuto ex novo nella specificità, nella univocità di ogni caso, di ogni domanda di consulenza.

Per approfondimenti:

Una interessante lettura simbolica, antropologica e storica dell’anoressia si trova in:  

Bell, R.M. ( 1998 ), La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi. Laterza Editori, Roma.

casi clinici, Scuola

Ancora su autonomia e disabilità a scuola: tracce di una difficoltà a progettare.

Ritorno a parlare del problema dell’autonomia negli interventi con la disabilità a scuola. Lo farò riportando alcuni casi che ho seguito come consulente entro scuole superiori, come formatrice di personale di assistenza alla disabilità o come supervisore.

Spesso ho incontrato nelle scuole per cui ho lavorato una evidente difficoltà a “diplomare” gli studenti con una qualche diagnosi. Sono diversi i casi di studenti fermati agli ultimi anni di scuola. Il problema del fermare compare puntualmente ogni volta che uno studente con diagnosi raggiunge il quinto ed ultimo anno di scuola. Un esempio: 

In un istituto professionale un GLH[1] straordinario viene convocato per uno studente al quinto anno, Luca, che ha seguito, anzi puntualmente disertato, un programma con obiettivi minimi, del quale per altro si dubita che Luca possa dar conto entro una verifica. Il problema è che, “data la poca voglia del ragazzo di impegnarsi in un programma di studio, seppur minimo, si è insistito su compiti di autonomia.”  Mi racconta questo episodio l’assistente specialistica di Luca entro un corso di formazione. Le chiedo quali siano questi compiti di autonomia. Mi dice di non saperlo: lei si è occupata di altro, cioè della socializzazione di Luca con la classe. Ora però nessuno sa sulla base di quali competenze diplomare Luca.

E’ sintomatico che nel racconto dell’assistente Luca sia diventato un “ragazzo”, cioè ha perso lo status di studente. La assistente tralascia anche la sua diagnosi, come se non avesse nulla a che fare con le sue difficoltà. Ipotizzo che stia parlando di un altro problema. “Fermare” nel gergo della scuola sembra il sintomo, palesemente violento nella sua vicinanza al linguaggio delle forze dell’ordine, con cui si esprime la difficoltà di dare un senso al percorso scolastico, la cui verifica diventa una minaccia da allontanare. Con gli studenti disabili diventa particolarmente evidente che i programmi scolastici rappresentano più un rito controllante che non un progetto. E se i programmi falliscono ci si appella a non meglio formalizzati percorsi di “autonomia” o “socializzazione” per poi non sapere come verificarli, cioè come licenziare/diplomare questi studenti. In altre parole gli studenti disabili riescono a mettere in crisi la fantasia che sia sufficiente la qualifica – diploma come prodotto del percorso scolastico.

Mi vengono in mente anche numerosi casi in cui gli studenti disabili alle scuole superiori vengono esclusi dalle attività di tirocinio svolte dai loro compagni, perché “hanno compiti di autonomia più urgenti su cui lavorare”. Ancora un esempio.

In una della scuole in cui ho lavorato uno studente al secondo anno, con diagnosi di ritardo lieve, segue una programmazione differenziata che mi dicono essere stata pensata per lui durante il primo anno, quando il ragazzo sembrava spaventatissimo dal nuovo contesto scolastico. Sono state escluse le materie di indirizzo (turistico) per attenuare il cambiamento e sono stati introdotti esercizi continui di copia e calcolo. La finalità dichiarata è quella di incrementare la sua autonomia (?!) prima di inserirlo nei tirocini, per evitare che questa novità lo spaventi di nuovo.

C’è da chiedersi chi è più spaventato, se il ragazzo o la scuola, che sembra impegnata ad evitare che vengano disturbate prassi istituite. Questo impegno è agli antipodi della competenza a progettare, laddove per progettare intendo la possibilità di riconoscere domande sulla cui base convenire obiettivi. In questo caso è evidente come si cerchi di evitare al ragazzo di domandare alcunché, controllandolo attraverso gli esercizi di copia e calcolo, facendo riferimento alla fantasia di autonomia come acquisizione del massimo di conformità alle attese degli altri.

Voglio dire che la presenza di disabili a scuola può diventare davvero preziosa. Per esempio in questi casi svela una difficoltà delle scuole a pensare al rapporto tra formazione e futuro degli studenti. E implica la possibilità di pensarci e di lavorarci. Una grande opportunità!teatro integrato piero gabrielli

Sempre che la scuola non viva il cambiamento che la disabilità dà occasione di progettare come una minaccia nei confronti di prassi istituite. Minaccia da tenere a bada, per esempio attraverso riti controllanti a cui si dà il nome di “autonomia” e che prendono il posto di una seria riflessione sul futuro post scolastico degli studenti; disabili e non.

[1]  Gruppo di Lavoro sull’Handicap, introdotto dalla L. 104/92 come strumento di raccordo tra territorio, scuola e famiglia, per la costruzione e verifica di piani educativi e di integrazione degli studenti disabili.

casi clinici, Scuola

La disabilità a scuola: lavorare sull’autonomia o dotare di senso eventi critici?

burattinoL’incontro tra disabilità e scuola produce una domanda a ripensare le relazioni scolastiche, che spesso rimane inevasa. La disabilità, infatti, sembra avere il potere di rivelare le enormi difficoltà che la scuola italiana ha nel rendersi conto di avere continuamente diversità da trattare. Per questo può essere trattata come evento disturbante, da arginare; oppure può diventare ciò che la psicosociologia ha chiamato analyseur [1], cioè evento critico che, usato come fonte di informazione, svela le dinamiche emozionali che organizzano i problemi della scuola.

Non è facile trovare nella scuola la competenza a trattare la disabilità come evento critico. Anche tra gli psicologi prevale una centratura sulla diagnosi e sulle tecniche di riabilitazione. La cultura con cui si tratta la disabilità è una cultura medica, anche nella scuola, che in teoria  avrebbe obiettivi molto diversi da quelli della cultura medica  ( diagnosticare – curare ).

Prendiamo la questione dell’ “autonomia”, che nella mia esperienza è il leitmotiv degli interventi sulla disabilità a scuola. Il problema è che si dà per scontato il significato di questo termine e si ignora che esso è al centro di un profondo conflitto tra disabili e coloro che vorrebbero educarli all’autonomia. Il termine deriva dal greco ( autos, propria e nomos, legge ) e significa: seguire la propria legge. Ma la legge di chi?

Per i tecnici della riabilitazione autonomia vuol dire, ad esempio, andare in bagno o vestirsi o mangiare da soli: fin qui, verrebbe da dire, menomale che c’è qualcuno che se ne occupa. Ma poi la questione si complica quando autonomia diventa, ad esempio, essere capaci di camminare per strada senza abbracciare gli sconosciuti; oppure, per un bambino diagnosticato come iperattivo, essere in grado di stare seduto in classe 5 ore. Si chiede ai disabili un adeguamento alle proprie regole di convivenza. La legge è la norma, il conformismo che regola un contesto.

Per i disabili invece autonomia vuol dire, semplicemente: libertà di sbagliare. Lo dice chiaro e tondo l’ENIL (European Network on Independent Living, associazione europea di disabili nata nel 90 ), sul cui manifesto si legge che: “Vita Indipendente ha a che fare con l’autodeterminazione. È il diritto e l’opportunità di perseguire una linea di azione ed è la libertà di sbagliare e di imparare dai propri errori, esattamente come le persone che non hanno disabilità.”[2].

Un esempio: in un terzo anno di un Istituto tecnico/professionale per il quale ho lavorato, una insegnante di sostegno si poneva come obiettivo quello di rendere Mino, un ragazzo con diagnosi di ritardo mentale lieve, capace di prendere il quaderno di matematica nell’ora di matematica, quello di italiano nell’ora di italiano, e così via. Mino invece quando vi era un cambio di docente in classe, i quaderni li prendeva tutti e li lanciava per aria! Per l’insegnante di sostegno educare Mino a prendere il quaderno “giusto” equivaleva a lavorare sulla sua autonomia e poco importava domandarsi il senso del suo comportamento. L’autonomia, una volta adottata acriticamente come obiettivo, consente di non farsi domande, anzi, intesa come adeguamento al contesto sociale, impone di non farsi domande, poiché le domande mettono in discussione le regole di contesto.

Aggiungo che nella mia carriera poche volte ho visto interrogarsi qualcuno sul senso di un comportamento di un disabile: i disabili fanno ciò che fanno perché sono disabili. Il mio lavoro dunque spesso consiste nel portare domande, invitare a leggere significati in un comportamento, considerandolo non come prodotto ovvio di una disabilità, ma come proposta di relazione. Questa competenza psicoanalitica a leggere relazioni può attenuare la violenza che spesso si sviluppa intorno al trattamento della disabilità.

Perciò nel caso di Mino ho lavorato a costruire insieme ai docenti ed alla sua classe ipotesi sul significato del suo comportamento. Pensate che un’ipotesi interessante è arrivata dai compagni di classe di Mino, che ci hanno fatto notare come Mino iniziasse a partecipare alle lezioni, a suo modo, solo verso la fine dell’ora. Il cambio di docente era perciò per lui un’interruzione di un tentativo di esserci e di mettersi in relazione con il suo contesto, una frustrazione di un desiderio di partecipazione. Un desiderio conflittuale, perché molto difficile da realizzare nella pratica per Mino.

Dotare di senso il comportamento di Mino ha consentito alla classe di riorganizzarsi per consentire a Mino di provarsi nella partecipazione. L’obiettivo non era più prendere il quaderno giusto, ma scoprire cosa poteva essere interessante per Mino e consentirgli di cimentarsi in quell’interesse. Che d’altra parte non sarebbe male come obiettivo per tutti gli studenti.

[1] Per la psicosociologia francese  l’ analizeur è quell’evento che disturba prassi istituite entro contesti organizzativi e al contempo ne è un prodotto; dunque parla delle dinamiche implicite che fondano l’organizzazione.

[2] http://www.enil.it/enil.htm

Per approfondimenti:

http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/ojs/index.php/quaderni/article/view/348

http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/ojs/index.php/quaderni/article/view/507

http://www.enil.it

casi clinici

Insieme per forza; la fantasia del ripiego nelle relazioni

Escher, Bond of Union

Lucio – un giovane di 30 anni, mio paziente da circa 3 – arrivò da me con un sintomo:  non riusciva a controllare la sua rabbia, che esplodeva improvvisamente e violentemente per motivi apparentemente futili. Con questi scatti d’ira Lucio rovinava e rompeva le sue  relazioni; cominciava a temere  che prima o poi sarebbe rimasto solo.

Insieme ipotizzammo che Lucio desiderasse inconsciamente liberarsi delle sue relazioni, poichè le simbolizzava e le organizzava in un modo che le rendeva insostenibili.   Abbiamo chiamato questo modo fantasia del ripiego; la sintetizzerei così: “faccio ciò che faccio perché non ho altra alternativa”.

Un esempio: Lucio è sposato da circa 7 anni con una donna straniera, Leila. Le chiese di sposarlo dopo pochi mesi di conoscenza, consentendole così di rimanere in Italia ( il permesso di soggiorno di Leila era in scadenza e di lì a breve sarebbe dovuta rimpatriare ).   Lucio dice di volere molto bene a questa donna. Le è grato perché si è sentito aiutato in un periodo molto difficile della sua vita: senza di lei non sarebbe mai riuscito a sganciarsi da una famiglia entro la quale si sentiva oppresso, privo di vitalità e incapace di uscirne. Hanno avuto un periodo iniziale di complicità che Lucio ricorda con nostalgia. Ora litigano in continuazione e parlano di separazione. Si sentono ingabbiati e logorati dalla loro relazione. Qualche tempo fa Lucio mi dice che a lavoro racconta a tutti di essere sposato ( e lo dice come se non fosse vero ), per spiegare come mai fugga sempre velocemente a casa dopo il lavoro e per evitare di essere invitato dai colleghi a bere birra o ad andare al cinema. Mi colpisce molto questo suo trattare il suo matrimonio come una cosa non vera e glielo dico. Lucio mi dice che è una menzogna dire che è sposato, ma è una menzogna anche dire che non è sposato. Capisco l’angoscia profonda di quest’uomo, che vive la sua vita e le sue relazioni come una finzione, una messa in scena. Capisco la sua rabbia, che lo porta a irrompere violentemente sulla scena per denunciare che è tutto finto, che nulla è autentico, che si sente un automa, cioè privo di verità, cioè privo di vita, cioè morto. Anzi, gli scatti d’ira sembrano l’unico istinto vitale rimasto a Lucio.

Ma qual è la menzogna di Lucio? Nel tempo l’abbiamo ricostruita e pensata, soprattutto ripensando il rapporto con Leila. Lucio pensa di aver sposato Leila per consentirle di rimanere in Italia. Cioè pensa che Leila lo abbia sposato per rimanere in Italia ( aggiungo che il paese da cui Leila proviene è un paese in guerra, in cui si è in pericolo di vita ). Lucio pensa anche che sta con Leila perché senza di lei nessuno si sarebbe mai interessato a lui. Il loro rapporto si è fondato sulla fantasia che nessuno dei due avesse una alternativa. Insieme perché da soli sarebbero stati spacciati. Insieme per forza. Insieme per mancanza di altre opportunità.

In realtà è proprio questa fantasia ad essere una condanna a morte delle relazioni. Le riduce ad un ripiego, un’ultima spiaggia che è più una prigione che una salvezza. Pensate cosa vuol dire stare insieme a qualcuno pensando che quel “poverino” non ha altra chanche. La fantasia di ripiego si fonda su una profonda svalutazione di sé e dell’altro, come proiezione di sé stessi. Consente di tenere in vita, denunciandola, un’immagine di sé morto, privo di desiderio e di desiderabilità.

Probabilmente qualcuno si riconoscerà in qualche spunto di questo scritto, pensando al modo in cui vive relazioni in famiglia, con gli amici, a lavoro; anche se la sua storia non è drammatica come quella di Lucio. Non mi meraviglierei: è abbastanza comune vivere come un ripiego una relazione amorosa, un lavoro o, dato che siamo in tema, un Natale in famiglia. Credo che la fantasia del ripiego sia una figura della contemporaneità, che porta a disinvestire da ciò che si ha, per fantasticare che c’è qualcosa di migliore da cui si è esclusi. Che porta a svalutare, cioè ad evitare di vivere la propria realtà.

Con Lucio il lavoro è stato lungo e complesso ed è passato anche attraverso la svalutazione della terapia ( ovviamente Lucio pensava di essere arrivato da me perché non aveva alternative ), ma oggi è in grado di pensare questa sua fantasia piuttosto che sentirsene prigioniero e di riconoscere elementi di desiderio nelle sue relazioni.

Approfondimenti teorici:

 Winnicott, D.W. (1971), Sviluppo affettivo e ambiente. Armando ed., Roma.
Di Maria, F. ( a cura di ) ( 2001) Psicologia della convivenza. Franco Angeli.   Introduzione di Renzo Carli
attualità, casi clinici

La crisi economica da un punto di vista psicoanalitico. Un caso.

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Dal 2007 sentiamo parlare di crisi. Calo dell’occupazione, assenza di prospettive per i giovani, zero crescita. Si fa riferimento allo spread, al debito pubblico; si sente spesso dire che non vi sono più risorse. Eppure alcuni dati insinuano quantomeno un dubbio sulla natura di questa crisi, che chiamiamo economica, ma che ha profondamente a che fare con modelli di relazione.

Qualche esempio. Nell’ ultimo anno la ricchezza complessiva mondiale è aumentata dell’8,3%. In Europa del 10,6%. L’Italia segue lo stesso trend, piazzandosi prima della Germania. Negli ultimi 10 anni la ricchezza globale è aumentata del 46%. ( Global Wealth Report 2014 del Credit Swiss). I risparmi degli italiani sono in aumento ( Rapporto Banca d’Italia 2014 ). Eppure in troppi non si riconoscono in queste statistiche. Intanto va detto che ciò che viene misurato con questi dati è l’aumento dei soldi. Soldi che oggi possono essere numeri su un computer. In secondo luogo va aggiunto che l’altra cosa ad aumentare in modo ancor più eclatante è la sperequazione sociale. I soldi aumentano e si concentrano sempre più nelle mani di pochi ( l’1% della popolazione possiede il 43% della ricchezza mondiale ).

Potremmo dire che siamo di fronte ad una crisi dei rapporti di “scambio“, mentre cresce l’esaltazione del “possedere”  come modo di stare al mondo.

Quella di possedere, accumulare, conservare, stipare, sembra una preoccupazione costante di chiunque, da chi ha molto a chi ha poco. Il lavoro diventa il mezzo che consente di accumulare ricchezze per sè e la propria famiglia e smette di essere un terreno di scambio, di produzione e di creazione. Smette di rispondere ad una domanda sociale, rispondendo solo alla propria necessità di accumulare. O se vogliamo alla necessità di “realizzarsi”, che, indicata dal buon senso come finalità naturale e necessaria a cui tendere, sembra in realtà una negazione del valore sociale del lavoro.  Realizzarsi vuol dire far diventare reali le proprie fantasie; non è compreso un discorso sull’Altro da sè, non vi è accenno al prodotto del lavoro come qualcosa che si dona ad altri. La necessità di “realizzar-si” prende il posto del desiderio di “realizzare”, di creare. Accumulare e realizzarsi non prevedono uno scambio col mondo, con le persone, con le cose. Implicano illusione di controllarle, cioè che esistano a proprio uso e consumo. Un illusione certo. Perchè l’unico vero modo di controllare, di possedere è distruggere.

E’ dentro questa cultura che il mercato del lavoro si è deteriorato. Non certo per assenza di risorse, ma per un atteggiamento nei confronti delle risorse.

Vorrei sottolineare che non si parla di qualcosa che riguarda altri, per esempio coloro che governano i mercati finanziari o coloro che dettano le politiche econimiche dei paesi, ma di una cultura che organizza il vivere della gente comune e che incontro spesso nel mio lavoro.

Un pomeriggio si presentò nel mio studio un giovane di 23 anni. Fuori corso, di molto, alla seconda università a cui si era iscritto, dopo aver ritenuto la prima troppo difficile per lui. La sua fidanzata, psicologa in formazione, più grande di lui di alcuni anni, gli aveva consigliato di fare un percorso psicoterapico, preoccupata per l’umore depresso con cui il giovane affrontava la vita. Il ragazzo ( chiamiamolo Andrea ), lamentava una stanchezza di vivere, di avere relazioni, di conoscere, di fare. Per settimane intere non usciva di casa, passando il tempo con i giochi d’azzardo online. Spesso si accaniva con gratta e vinci, schedine, lotto, superenalotto. La sua vita era un continuo tentativo di sbarcare il lunario rimanendosene a casa o tuttalpiù scendendo al bar sotto casa. Eppure per lui non sembrava un problema. Era da me solo perché si sentiva obbligato dalla sua ragazza, la odiava per questo, ma non voleva perderla. Gli chiesi se si sentiva obbligato anche ad andare all’università. O a cercare un lavoro. Mi raccontò di un padre che aveva fatto nella vita ogni genere di lavoro, inginocchiandosi, a detta sua, di fronte ai signori per guadagnare due lire. Un padre sentito come servile. E di una madre che voleva che il figlio riscattasse la famiglia da questo servilismo. Si, questo ragazzo si sentiva obbligato a fare tutto ciò che aveva intrapreso nella sua vita, così come si sentiva obbligato a venire da me. E si sentiva obbligato da un modello: non essere servo. Questo stava trasformandosi in un progressivo ritiro dalle relazioni che assicurava ad Andrea di non “servire” nessuno, in una morbosa fantasia di diventare ricco senza lavorare, per non avere bisogno di lavorare. Diventare potente era il suo desiderio segreto, mentre si riduceva sempre di più ad essere un bambino arrabbiato e impotente.

La situazione di Andrea non è certo straordinaria. Basti pensare che gran parte del sistema economico mondiale oggi si fonda sull’idea, fasulla, che i soldi si fanno con i soldi. E che l’unica utilità dei soldi è quella di fare altri soldi. Il mondo della finanza, i suoi scandali, la sua assenza di regole ne è l’esempio. Ne è una conseguenza il disinvestimento dal lavoro. Così come ne è un corollario ciò che oggi si chiama ludopatia.

Dissi ad Andrea che essere potente o essere servo non erano le due uniche possibilità di stare nelle relazioni. Gli proposi di parlarne con me ancora per qualche seduta. Incontrai Andrea per 5 volte e parlammo a lungo del suo timore di essere derubato dai suoi amici, del suo sentirsi trattato come un bambino dalla sua fidanzata, del suo aver perso un lavoro perché sfidava un capo sentito come un potere insopportabile. Andrea non se la sentì di continuare, di investire in una relazione che era così evidentemente uno scambio, qualcosa che sconfermava che si può essere solo servi o padroni. Spero che quel dubbio che insinuammo insieme abbia fatto, lentamente, il suo corso.

Per approfondimenti:

Carli, R. (2012). L’affascinante illusione del possedere, l’obbligo rituale dello scambiare, la difficile arte del condividere. Rivista di Psicologia Clinica, 1, 285 – 303.