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Cervelli in fuga? Miti e problemi della mobilità internazionale in una prospettiva psicologica.

 

logo mobilitàAlcuni dei principali giornali italiani hanno ormai una rubrica dedicata alla “fuga dei cervelli” italiani; vi si narrano storie di giovani eccellenti, esclusi dal mercato del lavoro italiano, che all’estero ce la fanno; vi si esprimono personalità autorevoli del mondo politico o accademico, concordando quasi sempre su una premessa: andare via dall’Italia è una necessità.

“Ragazzi, non tornate” è l’ultima dichiarazione illustre rivolta ai giovani italiani all’estero. Ilvo Diamanti titola così un articolo pubblicato il 4 settembre su Repubblica, argomentando: l’Italia non investe sui giovani, ma è impegnata a tutelare i privilegi degli anziani, dentro un quadro desolante di invecchiamento della popolazione[1].  Meglio esclusi che impotenti, sembra dire Diamanti, mettendosi automaticamente tra gli impotenti che vivono l’Italia come luogo in cui è possibile solo prosciugare risorse.

Una provocazione? Forse; fatto sta che il discorso pubblico intorno alla mobilità dei giovani italiani si organizza quasi sempre intorno alla rabbia, all’esclusione, alla colpa, alla necessità, all’abbandono, alla fuga.

Da circa un anno vivo e lavoro in Belgio, a Bruxelles; nella mia attività di psicoterapeuta incontro italiani qui residenti che mi parlano della loro esperienza di espatrio, alle volte nei termini di queste emozioni.

Ma c’è anche molto altro.

C’è il coraggio, per esempio; c’è la curiosità; ci sono l’imprenditività e la creatività; e poi la scoperta, la sorpresa, la meraviglia, lo spaesamento.  

Di tutto questo, di questa complessità e di queste emozioni difficili da sostenere, non c’è traccia nel discorso pubblico, che amplifica un mito della migrazione impoverente e desolante, favorendo proprio quella mancanza di fluidità ( i “cervelli” che fuggono e non ritornano ) di cui si preoccupa.

In un bellissimo articolo su migrazione e integrazione, Massimo Cirri definisce l’integrazione come possibilità di andare e tornare; si tratta prima di tutto di un vissuto di possibilità.  Se vogliamo, la retorica della rabbia e della colpa che accompagna il mito dei cervelli in fuga schiaccia questo vissuto di possibilità, appiattendo la complessità e la ricchezza di una esperienza di trasferimento.

Già, perché le persone che si spostano non sono solo cervelli, non stanno solo andando via da qualche parte, non sono solo italiani. Per esempio hanno dei progetti o dei sogni, hanno delle competenze, hanno degli interessi e delle passioni, hanno delle reti di relazioni, hanno delle idee.

Con il gruppo di colleghi con cui mi occupo di culture del lavoro, abbiamo deciso di capire qualcosa in più su questa questione. Stiamo facendo ricerca sui miti che organizzano la mobilità internazionale e sul loro rapporto con le culture del lavoro[2]. Una delle cose che stiamo capendo è che un vissuto che accompagna i trasferimenti per lavoro è quello della solitudine. Non è così univoco, scontato e banale il senso di questa emozione. Nel modo in cui la stiamo incontrando, solitudine significa tre cose:

E’ innanzitutto una crisi delle appartenenze. Abdelmalek Sayad[3], sociologo algerino che si è occupato a lungo di fenomeni migratori, parla di doppia assenza per definire la condizione di chi si sposta dal paese d’origine: ci si sente fuori dai sistemi di appartenenza che si sono lasciati, ma ci si sente fuori anche da quelli del paese in cui si è arrivati. E’ molto interessante il costrutto di funzione specchio che propone per spiegare questo vissuto di assenza; lo reinterpreto così: entrare in una nuova cultura permette di rendersi conto della non scontatezza della cultura di appartenenza, ma pure di quella nuova che si sta sperimentando.  Una delle fondamenta dell’identità – l’appartenenza ad una cultura – smette di essere qualcosa di scontato, di naturale, di non visto. La si comincia a vedere da fuori; la si può cominciare a pensare. In questo senso, più che di doppia assenza, potremmo dire che si tratti di una prima, forte, importante presenza, intesa come capacità di pensare le proprie premesse culturali.

In secondo luogo la solitudine è una esperienza di cedimento di fantasie e di attese, che sempre accompagnano un’esperienza di trasferimento. Mettiamo, per esempio, che si lasci l’Italia nella fantasia che questa sia priva di opportunità, che invece abbondano nel paese dove si è diretti; il più delle volte si finisce per constatare che la possibilità di lavorare non è qualcosa che si trova per strada o che si pesca da un cestino più o meno pieno, ma è qualcosa che si costruisce, con impegno, idee, competenze, progetti.   Quando nel confronto con la realtà le fantasie vengono disattese, le emozioni che accompagnano questa de – illusione possono essere le più disparate, ma di sicuro una di esse, forse la più basilare, è quella di trovarsi improvvisamente fuori, soli, di fronte ad una realtà complessa, ancora da comprendere, esplorare; una realtà non scontatamente amica e nemmeno nemica a prescindere.   

Dentro queste accezioni la solitudine è un momento trasformativo e di conoscenza prezioso. Una delle domande che ci stiamo ponendo nel fare ricerca sulla mobilità, è: a quali risorse si può attingere per utilizzare questa opportunità?

Infine la solitudine è l’emozione che la complessità che si sta vivendo sia incondivisibile; che non vi sia nessuno con cui se ne possa parlare; che si sia soli, privi di risorse per pensare.

Ciò che pensiamo è che i miti sulla mobilità, che semplificano e appiattiscono, alimentino questa ultima accezione della solitudine, a scapito delle altre, legittimando la fantasia che non se ne possa parlare. Pensiamo alla retorica della facilità di avere successo all’estero, di fronte alla quale anche esperienze molto interessanti vengono liquidate come fallimenti.

Per questo spesso mi capita di incontrare pazienti che parlano dei loro trasferimenti, a volte numerosi, come di un voltare pagina, un ricominciare da capo. Le esperienze che sono andate diversamente da ciò che ci si aspettava vengono trattate come qualcosa da accantonare, a cui smettere di pensare, da nascondere anche con un po’ di vergogna, in una sorta di gioco d’azzardo incoraggiato dal motto: ritenta, sarai più fortunato.

 Invece, domandarsi cosa ci si aspettava e riconoscere tutte le altre – tante e a volte preziosissime – cose che sono accadute, è una competenza fondamentale per costruire il valore e l’utilità delle proprie esperienze.

di Sonia Giuliano

 

[1] Dovendo fare un’analisi politico-sociologica, la situazione italiana è ben più complessa e per nulla riducibile ad un conflitto generazionale. Nei commenti all’articolo di Diamanti, per esempio, molti urlano il più grande problema italiano: la corruzione.  E se parlando di corruzione ciò che viene in mente sono le “mazzette”, siamo ben lontani dalla comprensione di un fenomeno che è culturale e pervasivo. La corruzione è una perversione dei rapporti, che smettono di essere luogo della creazione di risorse ( le risorse sono per definizione a disposizione di una comunità)  e diventano luogo da depredare per un tornaconto individuale. O, se vogliamo, è una perversione delle appartenenze, che smettono di essere una premessa e diventano un fine. Un esempio facile: la famiglia è un sistema di appartenenza; nel gruppo di colleghi psicologi con cui lavoro usiamo dire che l’obiettivo della famiglia è preparare l’uscita dei suoi membri da essa; per esempio aiutando un figlio ( ma pure un marito, una madre o una nonna ) ad esplorare il mondo e l’estraneità che comporta. Questo apre, chiaramente, a scenari imprevedibili. Se la famiglia, invece, opera per autopreservarsi e per scongiurare l’imprevedibilità ( per esempio perché i suoi membri temono di non avere potere fuori da essa ) allora tenderà a considerare una minaccia da neutralizzare qualsiasi tentativo di esplorazione esterna. L’espulsione, l’esclusione, l’impotenza, la paura sono i vissuti che organizzano le famiglie, e in generale tutti i sistemi di appartenenza, che si vivono come fine più che come premessa. L’Italia di cui parla Diamanti sembra proprio questo tipo di sistema di appartenenza chiuso: una famiglia in cui i giovani rappresentano potenzialmente la parte destabilizzante e che quindi hanno due destini: rimanere bloccati e impotenti o pagare lo scotto dell’esclusione.

[2] Siamo un gruppo di psicologi e ricercatori che lavorano con persone, aziende, sindacati e ordini professionali per esplorare e intervenire sui problemi collegati alla simbolizzazione del lavoro. La Dott.ssa Fiorella Bucci, ricercatrice presso il Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Gent, si sta occupando insieme a me di esplorare i significati della mobilità internazionale per gli italiani residenti in Belgio. Un primo contributo scientifico su questa esplorazione è stato presentato ad un convegno su “culture del lavoro e intervento psicologico”, organizzato da SPS Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica.

[3] Sayad, A.; ( 2002). La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Raffaello Cortina Ed.

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