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I nuovi servizi di Psicoanalisi e Convivenza: il 2019 è dedicato al lavoro che cambia

pierre jahan

Che significato ha oggi il lavoro nella vita delle persone? E come sta cambiando la sua funzione sociale, il modo in cui si organizza, le forme che assume? Di cosa parla la destrutturazione delle organizzazioni lavorative e l’emergere incalzante di nuovi lavori non organizzati dentro forme contrattuali dipendenti a lungo termine, spesso caratterizzati da una confusione e da una debolezza del ruolo e delle condizioni contrattuali?

E’ stato pubblicato sulla Rivista di Psicologia Clinica l’articolo di Sonia Giuliano e Fiorella Bucci in cui si analizzano, entro una prospettiva psicoanalitica, i cambiamenti delle forme e dei significati del lavoro negli ultimi decenni, a partire dalla crisi del 2008. Questa crisi, si sostiene, è stata primariamente una crisi dei modelli culturali fondati sull’individualismo e sull’avidità che, negli anni precedenti, hanno logorato non solo la sostenibilità dei mercati economico finanziari, ma sopratutto la fiducia nel lavoro e nei rapporti lavorativi in quanto dotati di un potere trasformativo e di sviluppo del vivere sociale.

Il mito del progresso, inteso come fantasia onnipotente di assenza di limiti e di obbiettivi nella crescita (economica, tecnologica, scientifica, finanziaria, personale), è stato l’emblema di questa cultura avida, che ha informato gli anni del neoliberismo, ma che ha radici più antiche. Si tratta di un mito che oppone la dimensione affettiva del crescere, creare, sviluppare, a quella dell’appartenere, dell’essere parte di sistemi sociali. Dentro questo mito si è sviluppata la simbolizzazione del lavoro in quanto banco di prova individuale, una simbolizzazione usurante più che motivante, che ha trasformato il lavoro in una perfomance ed i rapporti sociali in una competizione. Non è un caso che pochi anni prima del 2008 si inizi insistentemente a parlare di Stress Lavoro Correlato.

Ed ora cosa sta succedendo? La polverizzazione delle organizzazioni lavorative, che sta lasciando il posto sempre di più ad una economia di piattaforma che mette direttamente a confronto chi offre un servizio con i suoi clienti, di cosa parla? Perchè e in che modo la psicologia se ne può occupare?

Sarà interessante la lettura dell’articolo per continuare una riflessione su queste domande. Lo si trova sulla Rivista online, a questo link.

Psicoanalisi e Convivenza ha scelto di occuparsene e di concentrarsi nel 2019 proprio sul problema del lavoro, della sua simbolizzazione emozionale, del suo cambiamento.

Diverse le iniziative in cantiere.

In primis ci si vuole dedicare a quei giovani ( ma anche meno giovani ) che oggi sono implicati dentro ruoli lavorativi deboli, la cui funzione è confusa e con essa anche il riconoscimento sociale ed economico che ne deriva. Li chiamano “lavoretti”, ma sono potenzialmente esperienze, che dotate di senso, possono rappresentare funzioni chiave, sia sul piano dello sviluppo della convivenza sociale, sia sul piano della crescita personale e professionale. Pensiamo al lavoro di babysitter, che per molti giovani ( al 99% donne, anche questo è un dato che parla di una cultura interessante da analizzare ) rappresenta la possibilità di mantenersi gli studi e per altri diventa una possibilità di carriera. Ma pensiamo anche a chi lavora nel campo dell’assistenza alla disabilità, a scuola o in famiglia. Parliamo per lo più di funzioni di assistenza delicate e cruciali, che tuttavia fanno fatica a riconoscersi e ad essere riconosciute in specifiche competenze e obiettivi, con una conseguente svalorizzazione sia in termini di immagine che di salari.

A queste figure si dedicheranno specifici contesti di incontro, nell’idea di offrire spazi di consulenza entro cui costruire una identità, una funzione professionale forte ed entro cui riconoscersi in una appartenenza ad un gruppo professionale.  Inizieremo a gennaio con un progetto dedicato al lavoro di babysitting. Qui le informazioni.

Ma non solo: pensiamo anche ai rider, di cui oggi si comincia a parlare per via delle iniziative intraprese per denunciare e migliorare le condizioni lavorative. Sembra chiaro cosa faccia un rider, non sembra esserci confusione sulla sua funzione, ma nessuno si interroga su quale corrispondenza ci sia tra questa, il fatto che la maggioranza delle persone che fa questo lavoro è laureando o laureato e i progetti di sviluppo della categoria intrapresi da questi lavoratori nonostante si tratti per lo più di un lavoro temporaneo.

In questo 2019 si dedicheranno spazi di riflessione in gruppo al lavoro che cambia ed ai significati, condizioni e prospettive della gig economy ( economia dei lavoretti ). Si tratterà anche di momenti di studio di un fenomeno culturale ancora poco conosciuto, attraverso la partecipazione ed il contributo di chi lo vive.

Ci si occuperà poi delle libere professioni (psicologi, medici, avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti…) che pure vivono un momento di profonda trasformazione della propria identità culturale, in rapporto al cambiamento della domanda sociale con cui hanno a che fare. Si pensi alla crisi di immagine che vivono gli avvocati, o al mutato rapporto tra medici e loro pazienti. Si pensi anche alla crisi culturale che vivono i commercialisti entro una direzione normativa che tende a rendere sempre meno scontato e necessario il ricorso alla loro consulenza. A tal proposito si dedicheranno spazi di consulenza, formazione e orientamento, sia in gruppo che individuali, ai professionisti che si trovano a costruire o a ripensare la propria attività professionale. In particolare si offriranno contesti per pensare i propri progetti e le proprie attese sul mondo del lavoro ai laureandi e ai neolaureati, che pur essendo sempre più sfumata la distinzione tra tempo dello studio e tempo del lavoro, vivono un momento che rimane simbolicamente e sostanzialmente importante nella costruzione della propria identità professionale.

Concludiamo con il progetto di sviluppo del servizio di assistenza agli italiani che si trasferiscono all’estero e che vivono problemi specifici in rapporto ad una esperienza di cambiamento che è sempre complessa, ricca, a volte difficile e che spesso concerne il rapporto con il lavoro. Entro una ricerca pilota di cui si è già parlato in questo blog, con un gruppo di colleghi ne abbiamo intervistati diversi nelle città di Bruxelles, Lisbona e Londra. Proprio in questi giorni stiamo analizzando l’output dell’analisi statistica dei dati e presto ne parleremo ancora. Nel frattempo continuano ad essere attivi il servizio di consulenza via skype per gli italiani residenti all’estero e quello di orientamento per chi è interessato a trasferirsi fuori dall’Italia e desidera definire un progetto.

A questo link l’elenco completo dei servizi di Psicoanalisi e Convivenza.

attualità, Spunti teorici

Consumare risorse o produrre risorse: due culture a confronto

(…) “Comunismo e cattolicesimo, sia pure in modo diverso, rendevano il presente come funzionale al futuro. La speranza stava nel futuro. Un futuro situato nel solidarismo che preparava all’aldilà per i cattolici; situato nel cambiamento del mondo e dei destini del proletariato per i comunisti. La speranza nel futuro condizionava il comportamento ed i valori del presente. Tutto questo aveva ripercussioni di grande rilievo sui valori che reggevano il presente e sul modo di responsabilizzare le decisioni entro la vita attuale. (…)

Non sono solo i movimenti politici del nostro paese a determinare questo cambiamento. Pensiamo alla globalizzazione da un lato, allo spostamento dell’economia dalla produzione alla finanza dall’altro. Pensiamo alla profonda crisi economica che attanaglia da quasi 10 anni il mondo occidentale europeo, all’allargamento della comunità europea, all’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione che hanno cambiato radicalmente i rapporti tra persone e gruppi sociali. Il passaggio dalla speranza nel futuro alla ricerca di gratificazione nel presente sia nelle singole persone che nel sistema dei rapporti culturali. ( …)

Si è da più parte sottolineato come la speranza nel futuro motivi a sopportare il presente. Ma si è anche visto come la speranza motivi ad un impegno anche faticoso e sofferto nel presente. (…) La speranza nel futuro motiva al miglioramento sia individuale che sociale. Un miglioramento che concerne le persone e i sistemi organizzativi. Lo sviluppo , la crescita, il miglioramento, l’uso sempre più competente delle risorse, l’approfondimento delle conoscenze nell’ambito delle competenze emozionali, il miglioramento delle competenze organizzative, tutto questo appartiene ad una cultura che crede nel futuro e che è convinta del suo sviluppo. ( … )

Chi è attento soltanto al presente sviluppa di contro una atteggiamento di rapina, ove l’avidità da soddisfare è incurante del futuro, attenta solo a dare corpo alla cupidigia violenta e distruttiva di chi non si interessa minimamente a quanto succederà in quanto conseguenza del proprio operare. Per chi è attento solo al presente prevale la convinzione che ogni atto non abbia costo, sia priva di conseguenze per il futuro del contesto entro il quale si vive.

Vorrei che considerassimo attentamente questa componente del vivere solo nel presente. L’avidità che regge l’accumulo di gratificazioni materiali, indipendentemente da ogni previsione sul futuro è tipica della delinquenza, in particolare della delinquenza organizzata. ( … )

Chi vive nel presente senza cura e attenzione al futuro può essere motivato solo dall’avidità, dal consumo delle risorse senza alcuna motivazione al produrre trasformazioni del contesto utili al futuro. La trasgressione, la violazione delle regole del gioco la distruttività ingorda e irresponsabile vivono e agiscono in un presente fine a se stesso profondamente individualista, ove la dinamica delle relazioni è fondata solo sull’efficacia trasgressiva. Lo stato di diritto è stato corrotto e dissolto dal malaffare e dalla corruzione. Ciò che sembra in crisi nel nostro paese è il senso dello stato. ( … )

L’attuazione immediata dell’avidità rende impossibile il desiderare, Il desiderio comporta un progetto sul futuro, una proiezione del proprio agire entro una trasformazione finalizzata e pensata della realtà. Il desiderare è una scommessa con il futuro. (…)

attualità, casi clinici

La crisi economica da un punto di vista psicoanalitico. Un caso.

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Dal 2007 sentiamo parlare di crisi. Calo dell’occupazione, assenza di prospettive per i giovani, zero crescita. Si fa riferimento allo spread, al debito pubblico; si sente spesso dire che non vi sono più risorse. Eppure alcuni dati insinuano quantomeno un dubbio sulla natura di questa crisi, che chiamiamo economica, ma che ha profondamente a che fare con modelli di relazione.

Qualche esempio. Nell’ ultimo anno la ricchezza complessiva mondiale è aumentata dell’8,3%. In Europa del 10,6%. L’Italia segue lo stesso trend, piazzandosi prima della Germania. Negli ultimi 10 anni la ricchezza globale è aumentata del 46%. ( Global Wealth Report 2014 del Credit Swiss). I risparmi degli italiani sono in aumento ( Rapporto Banca d’Italia 2014 ). Eppure in troppi non si riconoscono in queste statistiche. Intanto va detto che ciò che viene misurato con questi dati è l’aumento dei soldi. Soldi che oggi possono essere numeri su un computer. In secondo luogo va aggiunto che l’altra cosa ad aumentare in modo ancor più eclatante è la sperequazione sociale. I soldi aumentano e si concentrano sempre più nelle mani di pochi ( l’1% della popolazione possiede il 43% della ricchezza mondiale ).

Potremmo dire che siamo di fronte ad una crisi dei rapporti di “scambio“, mentre cresce l’esaltazione del “possedere”  come modo di stare al mondo.

Quella di possedere, accumulare, conservare, stipare, sembra una preoccupazione costante di chiunque, da chi ha molto a chi ha poco. Il lavoro diventa il mezzo che consente di accumulare ricchezze per sè e la propria famiglia e smette di essere un terreno di scambio, di produzione e di creazione. Smette di rispondere ad una domanda sociale, rispondendo solo alla propria necessità di accumulare. O se vogliamo alla necessità di “realizzarsi”, che, indicata dal buon senso come finalità naturale e necessaria a cui tendere, sembra in realtà una negazione del valore sociale del lavoro.  Realizzarsi vuol dire far diventare reali le proprie fantasie; non è compreso un discorso sull’Altro da sè, non vi è accenno al prodotto del lavoro come qualcosa che si dona ad altri. La necessità di “realizzar-si” prende il posto del desiderio di “realizzare”, di creare. Accumulare e realizzarsi non prevedono uno scambio col mondo, con le persone, con le cose. Implicano illusione di controllarle, cioè che esistano a proprio uso e consumo. Un illusione certo. Perchè l’unico vero modo di controllare, di possedere è distruggere.

E’ dentro questa cultura che il mercato del lavoro si è deteriorato. Non certo per assenza di risorse, ma per un atteggiamento nei confronti delle risorse.

Vorrei sottolineare che non si parla di qualcosa che riguarda altri, per esempio coloro che governano i mercati finanziari o coloro che dettano le politiche econimiche dei paesi, ma di una cultura che organizza il vivere della gente comune e che incontro spesso nel mio lavoro.

Un pomeriggio si presentò nel mio studio un giovane di 23 anni. Fuori corso, di molto, alla seconda università a cui si era iscritto, dopo aver ritenuto la prima troppo difficile per lui. La sua fidanzata, psicologa in formazione, più grande di lui di alcuni anni, gli aveva consigliato di fare un percorso psicoterapico, preoccupata per l’umore depresso con cui il giovane affrontava la vita. Il ragazzo ( chiamiamolo Andrea ), lamentava una stanchezza di vivere, di avere relazioni, di conoscere, di fare. Per settimane intere non usciva di casa, passando il tempo con i giochi d’azzardo online. Spesso si accaniva con gratta e vinci, schedine, lotto, superenalotto. La sua vita era un continuo tentativo di sbarcare il lunario rimanendosene a casa o tuttalpiù scendendo al bar sotto casa. Eppure per lui non sembrava un problema. Era da me solo perché si sentiva obbligato dalla sua ragazza, la odiava per questo, ma non voleva perderla. Gli chiesi se si sentiva obbligato anche ad andare all’università. O a cercare un lavoro. Mi raccontò di un padre che aveva fatto nella vita ogni genere di lavoro, inginocchiandosi, a detta sua, di fronte ai signori per guadagnare due lire. Un padre sentito come servile. E di una madre che voleva che il figlio riscattasse la famiglia da questo servilismo. Si, questo ragazzo si sentiva obbligato a fare tutto ciò che aveva intrapreso nella sua vita, così come si sentiva obbligato a venire da me. E si sentiva obbligato da un modello: non essere servo. Questo stava trasformandosi in un progressivo ritiro dalle relazioni che assicurava ad Andrea di non “servire” nessuno, in una morbosa fantasia di diventare ricco senza lavorare, per non avere bisogno di lavorare. Diventare potente era il suo desiderio segreto, mentre si riduceva sempre di più ad essere un bambino arrabbiato e impotente.

La situazione di Andrea non è certo straordinaria. Basti pensare che gran parte del sistema economico mondiale oggi si fonda sull’idea, fasulla, che i soldi si fanno con i soldi. E che l’unica utilità dei soldi è quella di fare altri soldi. Il mondo della finanza, i suoi scandali, la sua assenza di regole ne è l’esempio. Ne è una conseguenza il disinvestimento dal lavoro. Così come ne è un corollario ciò che oggi si chiama ludopatia.

Dissi ad Andrea che essere potente o essere servo non erano le due uniche possibilità di stare nelle relazioni. Gli proposi di parlarne con me ancora per qualche seduta. Incontrai Andrea per 5 volte e parlammo a lungo del suo timore di essere derubato dai suoi amici, del suo sentirsi trattato come un bambino dalla sua fidanzata, del suo aver perso un lavoro perché sfidava un capo sentito come un potere insopportabile. Andrea non se la sentì di continuare, di investire in una relazione che era così evidentemente uno scambio, qualcosa che sconfermava che si può essere solo servi o padroni. Spero che quel dubbio che insinuammo insieme abbia fatto, lentamente, il suo corso.

Per approfondimenti:

Carli, R. (2012). L’affascinante illusione del possedere, l’obbligo rituale dello scambiare, la difficile arte del condividere. Rivista di Psicologia Clinica, 1, 285 – 303.