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Vaccini, allattamento e dintorni; alcuni campi su cui si gioca la ridefinizione del rapporto tra la medicina e i suoi pazienti.

medicoAlcuni anni fa lavoravo ad una ricerca volta ad esplorare l’atteggiamento di pediatri e ginecologi nei confronti dell’allattamento. La ricerca era commissionata da un ente che promuove l’allattamento al seno e si volevano conoscere le premesse culturali con cui i medici si rapportano ai loro pazienti nel trattare l’argomento.

Una cosa interessante che scoprimmo fu che i medici ne parlavano con imbarazzo, non sapendo bene in che modo intendere la questione dell’allattamento. Per alcuni ginecologi per esempio diventava una questione di ragadi al seno o di mastite; per alcuni pediatri una questione di peso del bambino, o di allergie. Ci colpì la difficoltà dei medici a trattare un evento relazionale come l’allattamento in termini diversi da quelli della patologia. Nel linguaggio medico, inoltre, la relazione di allattamento veniva scomposta in pezzi sempre più circoscritti: il seno, il latte, il peso del bambino, etc.

Si potrebbe osservare che il compito della medicina è esattamente questo: monitorare il confine tra funzionamento normale e patologico; e per far questo è necessario scomporre, isolare, circoscrivere. Scomporre, isolare e circoscrivere sembrano, a ben vedere, strumenti che rendono possibile l’operare medico. Non solo la diagnosi, ma anche, soprattutto, la cura, che spesso è un atto invasivo. Per esempio per intervenire chirurgicamente su un paziente è importante, dal punto di vista emotivo, scindere[1] l’organo malato su cui si interviene, dal resto.

Cosa c’è di interessante allora?

Intanto che alcune specializzazioni della medicina incontrano per lo più pazienti sani, non malati, privi di sintomi di rilevanza medica. E’ il caso dei pediatri di base, che incontrano routinariamente le famiglie con bambini piccoli, portati a controllo. Ed è il caso dei ginecologi, che per esempio seguono le donne in gravidanza assicurandosi che la gestazione stia proseguendo nel migliore dei modi. Potremmo dire che si tratta di “pazienti atipici”, proprio perché … non sono pazienti: il termine paziente viene dal latino patior, che vuol dire soffrire, ma anche sopportare, essere passivo. Ed è interessante questo doppio significato che assume senso entro il rapporto con il medico: la sofferenza sarebbe ciò che motiva ad affidarsi passivamente alla persona del medico.

Nei casi di cui stiamo parlando non sembra esserci sofferenza, almeno da un punto di vista organico. Invece questi “pazienti atipici” hanno quasi sempre una caratteristica comune: stanno affrontando una criticità; la gravidanza, l’arrivo di un figlio; ma si potrebbe pensare anche agli anziani che vanno a farsi controllare dal medico di base, o a chi va a controllo periodicamente per escludere patologie delle quali non ci sono sintomi, ma con cui si ha una qualche familiarità.

Qualche tempo fa seguii una donna che si sottoponeva continuamente a check up medici completi, dopo che a sua madre era stato diagnosticato un cancro al cervello. Ogni volta che da questi check up emergeva uno stato di salute impeccabile, la donna, lungi dal sentirsi sollevata, entrava in uno stato depressivo e sviluppava una serie di sintomi psicosomatici, per i quali, poi, si era rivolta ad un consultorio. Inutile dire che questa donna non aveva alcuna fiducia nei medici che le dicevano che stava bene e ogni volta cambiava specialista, delusa dal precedente. Non entro nel merito del caso, ma mi limito ad osservare quanto le domande che arrivano ai medici siano complesse, ricche, difficili. Spesso una domanda di controllo della salute è una domanda di assistenza ad una relazione critica. Nel caso di questa donna si trattava della relazione con una madre in fin di vita, con tutta l’ambivalenza che questo comportava.

Pensiamo anche alla diatriba attualmente in atto sul tema dei vaccini. Nonostante in molti sistemi sanitari in Europa non si parli più di obbligatorietà, la posizione ufficiale della medicina è che i neonati vadano vaccinati, per garantire la cosiddetta immunità di gregge rispetto ad alcune patologie. Pertanto una delle preoccupazioni della pediatria di base, almeno in Italia, sembra essere quella di monitorare l’effettuazione dei vaccini.

Parallelamente stanno nascendo movimenti, associazioni e voci all’interno della medicina stessa, che mettono in discussione la bontà della prassi vaccinatorie. Si temono gli effetti collaterali dei vaccini, si mette in dubbio l’utilità dei vaccini su patologie non fatali, si accusa la medicina e le istituzioni di fare gli interessi delle case farmaceutiche, si temono le ripercussioni a lungo termine dell’immunizzazione artificiale. La battaglia sui vaccini appassiona, dilaga sui social e in tv; ci si schiera dall’una o l’altra parte, alimentando paure e sfiducia. Con buona pace di chi, invece, non ne può più di sentir parlare di questo argomento. E quando si arriva a non poterne più, il più delle volte, significa che è necessario cambiare vertice di osservazione.

Per esempio, invece di schierarsi, si potrebbe provare a dotare di senso questo casus belli. Se ci si pensa, questo scontro con la medicina ufficiale arriva in un momento particolare della storia della medicina. Mai come in questo momento è in atto una crisi del potere medico, di cui ho già parlato altrove[2].

 In primo luogo è in crisi il senso della funzione medica. Per lungo tempo si è chiesto alla medicina di essere onnipotente, di curare tutto, di prevenire tutto; e la medicina si è sviluppata sull’onda di questo investimento; ma questa richiesta di onnipotenza non può che essere delusa e, forse, oggi più che mai, stiamo attraversando questa disillusione. Si pensi per esempio a quanto l’aumento della vita media, una conquista dovuta in buona parte ai progressi della medicina, sia direttamente proporzionale alla vertiginosa crescita di patologie croniche e disabilità.

In secondo luogo è in crisi la fiducia nel rapporto medico – paziente che, anzi, sembra fondato oggi su una reciproca diffidenza. Il fallimento della fantasia dell’onnipotenza medica si sta tramutando in un atteggiamento di difesa reciproca. In altre parole: i pazienti non danno più per scontato che l’operare del medico sia competente e a fin di bene, perciò non accettano più passivamente le prescrizioni; i medici utilizzano le prescrizioni[3] come difesa nei confronti di un paziente diffidente, per confermare un potere che sentono di stare perdendo.

Questo è quanto sta accadendo rispetto ai vaccini: genitori sempre più preoccupati e diffidenti chiedono delucidazioni e informazioni in merito ai vaccini da fare ai figli; la medicina, messa in discussione, risponde rassicurando, terrorizzando, e prescrivendo. Ma questo non sembra essere sufficiente. La preoccupazione rimane e non sembra affare di nessuno. O quasi.

Mi ha colpito molto la posizione di un medico, il Dott. Serravalle, abbastanza conosciuto in quanto una delle poche voci fuori dal coro della medicina ufficiale; non perché contrario ai vaccini, ma perché contrario alla logica della prescrizione come rimedio alla preoccupazione dei genitori. Questo pediatra cerca di farsi carico della preoccupazione delle famiglie che si rivolgono a lui, semplicemente… facendo il suo lavoro. Invece di prescrivere i vaccini, visita i suoi pazienti, ne valuta lo stato di salute, ascolta i genitori, raccoglie la storia del bambino e della sua famiglia, ne chiede i progetti e lo stile di vita.  Valuta i casi di fronte a cui si trova, di volta in volta.

Mi colpiva perché un ipotesi che si può fare è proprio questa: lo scontro sui vaccini parla del desiderio delle famiglie di essere prese in carico, di essere viste, di essere accolte dai medici. Prendersi cura di un figlio non è mai impresa facile e una domanda che costantemente viene rivolta ai pediatri, ogni volta che si porta a controllo un bambino, è di essere affiancati in questa difficoltà, di essere assistiti. Credo che questa domanda di assistenza venga spesso vissuta come “impertinente”, nel senso di non pertinente con la funzione medica. Prescrivere a prescindere, allora, può diventare un modo per difendersi da ciò che si vive come incongruente, anzi ostacolante le proprie competenze.

Credo anche che provare a capire questa domanda, nuova, inedita, sia un modo per rifondare la relazione tra la medicina ed i suoi pazienti.

 

 

NOTE

[1] La scissione è un modo del funzionamento inconscio della mente e consiste nel tenere separati elementi che starebbero naturalmente insieme. Spesso se ne parla in termini di meccanismo di difesa: per esempio si separa il buono dal cattivo in uno stesso oggetto, per preservarlo. Nel caso dei medici potremmo definirla una competenza emotiva: scindere l’organo malato dal paziente come persona, come parte buona, consente di intervenire in modo aggressivo, per esempio chirurgicamente.

[2] Cito da un mio precedente articolo: “Si pensi alla medicina e a come è cambiato il rapporto medico – paziente negli ultimi 40 anni. Un rapporto silente fino a qualche decennio fa: il medico visitava mentre il paziente stava zitto; solo alla fine della visita il medico parlava per dire al paziente che cura avrebbe dovuto fare. Oggi il paziente chiede, vuole essere messo al corrente di ciò che accade e spesso sa o pensa di sapere (si pensi al ruolo di internet in merito); non riconosce più al medico quel potere fondato sul fatto che è lui il solo che sa; non è più “paziente”, cioè non si affida passivamente al medico, ma ne controlla l’operato.  A fronte delle denunce che fioccano in ambito sanitario i medici sentono l’esigenza di difendersi e lo fanno, per esempio, prescrivendo farmaci ed accertamenti anche quando l’esperienza clinica suggerisce che non è necessario ( è la cosiddetta medicina difensiva che costa alla sanità italiana 10 miliardi di euro ogni anno ) ; nel vissuto dei medici i pazienti cominciano a diventare qualcosa da cui difendersi più che coloro per cui si lavora. Si tratta di un conflitto che mina la base di un rapporto professionale, cioè la fiducia, l’idea che l’altro è con me e non contro di me.” 

[3] Sarà bene precisare che intendo la prescrizione non nel suo significato tecnico ( quindi come cura a fronte di una diagnosi ) , ma come proposta relazionale difensiva. Si pensi ad esempio, alla medicina difensiva, appunto, dove le prescrizioni sono utilizzate come forma di tutela del medico.

casi clinici, famiglia

Donna, madre, e…? Riflessioni sul rapporto tra il dentro ed il fuori della famiglia.

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Negli ultimi giorni, come sempre accade intorno all’8 marzo, sono comparsi molti articoli riguardo la condizione, i problemi e i vissuti della donna nella società contemporanea.

Hanno parlato anche alcuni psicoanalisti illustri, come Massimo Recalcati, di cui segnalo l’articolo comparso su repubblica il 28 febbraio:

Ciao figlio. E’ tempo della mamma narciso.              http://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2015/03/Ciao-figlio.pdf

Si parla del rapporto tra la donna e la madre; un rapporto conflittuale secondo Recalcati, in cui, a seconda del periodo storico ha la meglio l’una o l’altra componente dell’identità. Nella società patriarcale la donna era sacrificata alla madre, la quale esisteva per i figli, per la famiglia. Deriva di questo sacrificio era una spinta a fondersi con i figli, una difficoltà a separarsene, una tendenza fagocitante, controllante. La patologia del materno, dice Recalcati, era la trasfigurazione dell’accudimento in una gabbia dorata in cui non è prevista separazione.

Oggi, mutate le condizioni sociali, la donna non reclama più il possesso dei propri figli, ma rivendica la possibilità di liberarsene, di volere altro per sé, di guardare altrove. La madre narcisista che considera i figli un peso mortificante, a dire di Recalcati è la nuova patologia del materno: “Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna.”

Leggendo l’articolo pensavo insistentemente a Dalila, una donna di circa 40 anni, sposata, con due figli. Mi chiese una consulenza perché non riusciva più a gestire sua figlia quattordicenne: stava iniziando a truccarsi e a vestirsi in modo molto provocatorio, frequentava compagnie “pericolose” di ragazzi molto più grandi e a scuola rischiava una seconda bocciatura. Temeva che sua figlia avesse qualche problema, aveva paura che finisse in qualche brutto giro, che qualcuno fraintendesse la sua spigliatezza e ne approfittasse.

Dalila era una donna di bell’aspetto. Una bellezza che sembrava volutamente addomesticata nell’ordine sobrio della pettinatura e del vestiario scuro.

Al primo colloquio per un’ora intera parlò di sua figlia e di quanto le facesse paura l’esplosione della sua seduttività, del suo desiderio. Il desiderio di chi? – mi chiedevo mentre parlava.

Allora le chiesi cosa facesse nella vita: di cosa si occupava, cosa le piaceva? Sembrò spiazzata da questa domanda, quasi infastidita, come se stessi violentemente spostando i riflettori dal palcoscenico al regista dietro le quinte.   Mi disse che faceva la mamma e la moglie e che non aveva tempo per altro. Si era sposata molto giovane; le sarebbe piaciuto lavorare, ma non sa che cosa avrebbe potuto fare. A scuola era una “capra”, l’unica cosa che sapeva fare era creare dei gioielli artigianali. Ma ormai non avrebbe saputo da dove cominciare. Forse avrebbe dovuto continuare? – si domandò a fine colloquio. Forse non avrebbe dovuto lasciarsi mettere in gabbia? Ecco – dice – si sente in gabbia e vorrebbe scappare. Mi chiese se pensavo che avrebbe dovuto lasciare sua figlia al suo destino per occuparsi finalmente di sé stessa.

Dalila aveva iniziato dalla trasgressività di sua figlia per parlare della sua trasgressività.

Era passata nel corso di un colloquio ( e non nel corso di un secolo ) dalla madre fagocitante e controllante messa in scacco dalla figlia ribelle ( unico destino possibile della madre che incorpora ) alla madre che rivendica la sua libertà e che desidera liberarsi dei figli.

E cercava di mettere in gabbia anche me, chiedendomi di avallare l’una o l’altra strada e di semplificare così un problema molto complesso. Potremmo dire che il “fagocitare/espellere” è una modalità dell’inconscio per semplificare la complessità emozionale delle relazioni. Sono due facce della stessa medaglia.

E non credo che il problema fosse, seguendo Recalcati e anche un po’ il buon senso, quello di “connettere generativamente l’essere madre e l’essere donna”, ma piuttosto quello di riconoscere la complessità dei desideri e delle paure in gioco.

Pensiamo alla figlia quattordicenne di Dalila, che evidentemente seduceva anche la madre con i suoi comportamenti, cioè la legava a sé facendola preoccupare; e contemporaneamente ne provocava il desiderio nascosto di trasgressione, sollecitandolo. E che era anche altro oltre che figlia: per esempio era una ragazza che temeva di confrontarsi con i passaggi evolutivi ( era la seconda volta che rischiava di non farsi ammettere agli esami di terza media ) e che si spostava artificiosamente in avanti attraverso l’uso del corpo e delle relazioni.

Pensiamo a Dalila che si sentiva incastrata nel ruolo di madre e al contempo sollecitata nella suo stesso desiderio di trasgressione; che si sentiva in gabbia non tanto perché costretta dall’atteggiamento della figlia, ma perché la figlia le ricordava che, anche lei, non sapeva cosa altro desiderare, verso quale futuro guardare.

Più che connettere il ruolo di madre ( o figlia ) e di donna direi che oggi la sfida è quella di riempire di senso questi titoli, riconoscendo di essere anche altro. Cittadina, per esempio; ingegnera, insegnante, operatrice ecologica, segretaria. Una giovane donna che sapeva realizzare gioielli artigianali. Una ragazza che ha paura del futuro. E partire da lì per immaginare il futuro, per pensarlo, progettarlo, costruirlo. E’ dentro questa possibilità che ci si accorge che la contrapposizione – culturale – tra madre, donna e “qualsiasialtracosa” è fasulla e che, anzi, solo sentendosi anche altro è possibile sentirsi madri e donne.

E, perché no, padri e uomini. Intendo dire che il discorso può svolgersi anche al maschile. Tuttavia è più raro che ci si ponga il problema del rapporto tra uomo e padre ( caso mai si parla della paternità in sé ) perché il discorso culturale dà per scontato che si sia anche altro oltre che uomo e padre. Mentre per la donna evidentemente non è ancora così.

Ma il punto è che oggi è culturalmente difficile investire su altro che non sia la famiglia. Ed è difficile per le famiglie realizzare che la propria funzione è quella di preparare i suoi membri ad avere a che fare col fuori, ad investire su obiettivi esterni. L’illusione è che si possa stare dentro, pensarsi dentro, al riparo, tutta la vita. E che si debba lavorare per renderlo il migliore dentro possibile.

E’ questa implosione che organizza rapporti violenti e impossibili nelle famiglie. E’ pensarsi solo madri o padri che rende impossibile essere genitori. E’ pensarsi solo donna o uomo che rende impossibile essere persone, coniugi, cittadini, lavoratori, … Ciascuno continui come vuole.