Lavoro, Spunti teorici

Quando lavorare non stanca. Il rapporto tra appartenenza, partecipazione e produttività.

Ogni anno la rivista Fortune stila una classifica delle aziende che coccolano maggiormente i propri dipendenti. Ve ne sono alcune che si sforzano di rendere oltremodo piacevole l’ambiente di lavoro[1] e di offrire qualsiasi servizio di cui il dipendente possa aver bisogno (palestre, saloni di bellezza, nido, market, sala giochi, bar, ristoranti, etc).  Tutto sembra studiato perché il dipendente desideri rimanere a lavoro. Anzi, perché desideri non uscirne mai.  Prima di farsi venire l’acquolina in bocca vale la pena esplorare la deriva sottilmente perversa di questa proposta.

L’intenzione sembrerebbe quella di far stare bene i dipendenti. Perché? Perché un dipendente che sta bene rende di più; soprattutto non ce l’ha con i suoi superiori, va d’accordo con i colleghi ed è più facile da gestire.  L’auspicio è: eliminare la conflittualità. Se non fosse che il conflitto è insito nelle relazioni ed anzi ne consente lo sviluppo. Non si dà relazione senza conflittualità. L’assenza di conflittualità è assenza di rapporto[2].

Al contrario ciò che può fare la differenza nei contesti di lavoro, in termini di produttività e soddisfazione, è la presenza, il riconoscimento e il desidero di rapporti. Lo capì circa un centinaio di anni fa un’equipe di ricercatori guidati da Elton Mayo, che nel 1927, andava costruendo situazioni sperimentali davvero all’avanguardia, presso gli stabilimenti Hawthorne della Western Electric, a Chicago.  Gli sperimentatori, in accordo con una lungimirante amministrazione dell’azienda, cercavano correlazioni tra la produttività dei lavoratori e le loro condizioni di lavoro. Quindi manipolarono queste ultime per un gruppo di lavoratori ( gruppo sperimentale ) e le lasciarono invariate per un altro gruppo ( gruppo di controllo ). Per esempio venne aumentata l’intensità dell’illuminazione. Il risultato fu che nel gruppo sperimentale ci fu un netto aumento di produttività, ma lo stesso risultato fu ottenuto anche dal gruppo di controllo, per il quale l’illuminazione non aveva subito alcun cambiamento. Mayo si spinse oltre, fino ad apportare ben dieci modifiche alle condizioni di lavoro, fra cui la riduzione dell’orario di lavoro, varie pause, nonché una serie di incentivi.  Gli stessi lavoratori parteciparono alla individuazione delle variabili da manipolare, fornendo la propria esperienza e proponendo le proprie ipotesi. Il risultato fu sempre lo stesso: la produttività aumentava in entrambi i gruppi. La cosa incredibile fu che quando ai lavoratori si chiese, attraverso riunioni partecipate, di tornare indietro rispetto ai benefici introdotti, le performance restarono più elevate rispetto ai livelli precedenti l’esperimento. Fu evidente che ciò che aveva fatto la differenza non erano le variabili strutturali che si manipolavano ( illuminazione, pause, etc ).

Quale variabile era intervenuta allora?

C’è chi parla di effetto Hawthorne come fenomeno per il quale le prestazioni di un soggetto variano in presenza di un osservatore. Credo sia una banalizzazione del lavoro di Mayo, come spesso accade quando si vuole generalizzare un fenomeno che appartiene ad uno specifico contesto.

Certamente però si può dire che i lavoratori percepivano che l’azienda si stesse interessando alle proprie condizioni di lavoro. L’innalzamento della produttività non era dovuto a condizioni strutturali, ma al vissuto di fare parte di un’organizzazione che si prendeva cura della salute dei suoi dipendenti, alla sensazione che ci fosse qualcuno che prestava loro attenzione, che li ascoltava.

E qui si arriva alla seconda questione cruciale: i dipendenti avevano partecipato alla costruzione dell’esperimento. Non si sentivano osservati, ma partecipanti. Sperimentavano forse per la prima volta il vissuto di avere potere di incidere sulle proprie condizioni di lavoro. Questo vuol dire partecipare: sperimentare di avere un potere di azione e di cambiamento nel rapporto con il contesto.

Questo è quanto ho capito nel corso della mia carriera; mi sono occupata di rischi psicosociali sul lavoro, di clima organizzativo e di culture del lavoro in contesti universitari, ospedalieri, scolastici e nella libera professione e ciò che ho visto è che la qualità della vita lavorativa raramente migliora con il variare di sole condizioni strutturali. Anzi la cultura per la quale si attendono variazioni strutturali dall’alto spesso acuisce il senso di distanza dal proprio contesto di appartenenza e amplifica il senso di impotenza. Per introdurre cambiamenti bisogna fare assistenza alle relazioni lavorative, costruendo contesti in cui sia possibile la partecipazione e la costruzione di criteri di lettura delle dinamiche istituzionali.

[1] Esiste un filone di studi di psico-architettura sull’arredamento degli uffici: colori, forme e posizioni che favorirebbero la costruzione di un clima sereno e produttivo.

[2] Altra storia è il modo in cui si può trattare la conflittualità. Per esempio la si può agire sino a farla cristallizzare in dinamiche violente, oppure la si può pensare per farla ritornare un elemento produttivo delle relazioni.

Per approfondimenti:

Fai clic per accedere a Hawthorne_20Studies_201924_20Elton_20Mayo.pdf

http://fortune.com/

casi clinici

Insieme per forza; la fantasia del ripiego nelle relazioni

Escher, Bond of Union

Lucio – un giovane di 30 anni, mio paziente da circa 3 – arrivò da me con un sintomo:  non riusciva a controllare la sua rabbia, che esplodeva improvvisamente e violentemente per motivi apparentemente futili. Con questi scatti d’ira Lucio rovinava e rompeva le sue  relazioni; cominciava a temere  che prima o poi sarebbe rimasto solo.

Insieme ipotizzammo che Lucio desiderasse inconsciamente liberarsi delle sue relazioni, poichè le simbolizzava e le organizzava in un modo che le rendeva insostenibili.   Abbiamo chiamato questo modo fantasia del ripiego; la sintetizzerei così: “faccio ciò che faccio perché non ho altra alternativa”.

Un esempio: Lucio è sposato da circa 7 anni con una donna straniera, Leila. Le chiese di sposarlo dopo pochi mesi di conoscenza, consentendole così di rimanere in Italia ( il permesso di soggiorno di Leila era in scadenza e di lì a breve sarebbe dovuta rimpatriare ).   Lucio dice di volere molto bene a questa donna. Le è grato perché si è sentito aiutato in un periodo molto difficile della sua vita: senza di lei non sarebbe mai riuscito a sganciarsi da una famiglia entro la quale si sentiva oppresso, privo di vitalità e incapace di uscirne. Hanno avuto un periodo iniziale di complicità che Lucio ricorda con nostalgia. Ora litigano in continuazione e parlano di separazione. Si sentono ingabbiati e logorati dalla loro relazione. Qualche tempo fa Lucio mi dice che a lavoro racconta a tutti di essere sposato ( e lo dice come se non fosse vero ), per spiegare come mai fugga sempre velocemente a casa dopo il lavoro e per evitare di essere invitato dai colleghi a bere birra o ad andare al cinema. Mi colpisce molto questo suo trattare il suo matrimonio come una cosa non vera e glielo dico. Lucio mi dice che è una menzogna dire che è sposato, ma è una menzogna anche dire che non è sposato. Capisco l’angoscia profonda di quest’uomo, che vive la sua vita e le sue relazioni come una finzione, una messa in scena. Capisco la sua rabbia, che lo porta a irrompere violentemente sulla scena per denunciare che è tutto finto, che nulla è autentico, che si sente un automa, cioè privo di verità, cioè privo di vita, cioè morto. Anzi, gli scatti d’ira sembrano l’unico istinto vitale rimasto a Lucio.

Ma qual è la menzogna di Lucio? Nel tempo l’abbiamo ricostruita e pensata, soprattutto ripensando il rapporto con Leila. Lucio pensa di aver sposato Leila per consentirle di rimanere in Italia. Cioè pensa che Leila lo abbia sposato per rimanere in Italia ( aggiungo che il paese da cui Leila proviene è un paese in guerra, in cui si è in pericolo di vita ). Lucio pensa anche che sta con Leila perché senza di lei nessuno si sarebbe mai interessato a lui. Il loro rapporto si è fondato sulla fantasia che nessuno dei due avesse una alternativa. Insieme perché da soli sarebbero stati spacciati. Insieme per forza. Insieme per mancanza di altre opportunità.

In realtà è proprio questa fantasia ad essere una condanna a morte delle relazioni. Le riduce ad un ripiego, un’ultima spiaggia che è più una prigione che una salvezza. Pensate cosa vuol dire stare insieme a qualcuno pensando che quel “poverino” non ha altra chanche. La fantasia di ripiego si fonda su una profonda svalutazione di sé e dell’altro, come proiezione di sé stessi. Consente di tenere in vita, denunciandola, un’immagine di sé morto, privo di desiderio e di desiderabilità.

Probabilmente qualcuno si riconoscerà in qualche spunto di questo scritto, pensando al modo in cui vive relazioni in famiglia, con gli amici, a lavoro; anche se la sua storia non è drammatica come quella di Lucio. Non mi meraviglierei: è abbastanza comune vivere come un ripiego una relazione amorosa, un lavoro o, dato che siamo in tema, un Natale in famiglia. Credo che la fantasia del ripiego sia una figura della contemporaneità, che porta a disinvestire da ciò che si ha, per fantasticare che c’è qualcosa di migliore da cui si è esclusi. Che porta a svalutare, cioè ad evitare di vivere la propria realtà.

Con Lucio il lavoro è stato lungo e complesso ed è passato anche attraverso la svalutazione della terapia ( ovviamente Lucio pensava di essere arrivato da me perché non aveva alternative ), ma oggi è in grado di pensare questa sua fantasia piuttosto che sentirsene prigioniero e di riconoscere elementi di desiderio nelle sue relazioni.

Approfondimenti teorici:

 Winnicott, D.W. (1971), Sviluppo affettivo e ambiente. Armando ed., Roma.
Di Maria, F. ( a cura di ) ( 2001) Psicologia della convivenza. Franco Angeli.   Introduzione di Renzo Carli
attualità, casi clinici

La crisi economica da un punto di vista psicoanalitico. Un caso.

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Dal 2007 sentiamo parlare di crisi. Calo dell’occupazione, assenza di prospettive per i giovani, zero crescita. Si fa riferimento allo spread, al debito pubblico; si sente spesso dire che non vi sono più risorse. Eppure alcuni dati insinuano quantomeno un dubbio sulla natura di questa crisi, che chiamiamo economica, ma che ha profondamente a che fare con modelli di relazione.

Qualche esempio. Nell’ ultimo anno la ricchezza complessiva mondiale è aumentata dell’8,3%. In Europa del 10,6%. L’Italia segue lo stesso trend, piazzandosi prima della Germania. Negli ultimi 10 anni la ricchezza globale è aumentata del 46%. ( Global Wealth Report 2014 del Credit Swiss). I risparmi degli italiani sono in aumento ( Rapporto Banca d’Italia 2014 ). Eppure in troppi non si riconoscono in queste statistiche. Intanto va detto che ciò che viene misurato con questi dati è l’aumento dei soldi. Soldi che oggi possono essere numeri su un computer. In secondo luogo va aggiunto che l’altra cosa ad aumentare in modo ancor più eclatante è la sperequazione sociale. I soldi aumentano e si concentrano sempre più nelle mani di pochi ( l’1% della popolazione possiede il 43% della ricchezza mondiale ).

Potremmo dire che siamo di fronte ad una crisi dei rapporti di “scambio“, mentre cresce l’esaltazione del “possedere”  come modo di stare al mondo.

Quella di possedere, accumulare, conservare, stipare, sembra una preoccupazione costante di chiunque, da chi ha molto a chi ha poco. Il lavoro diventa il mezzo che consente di accumulare ricchezze per sè e la propria famiglia e smette di essere un terreno di scambio, di produzione e di creazione. Smette di rispondere ad una domanda sociale, rispondendo solo alla propria necessità di accumulare. O se vogliamo alla necessità di “realizzarsi”, che, indicata dal buon senso come finalità naturale e necessaria a cui tendere, sembra in realtà una negazione del valore sociale del lavoro.  Realizzarsi vuol dire far diventare reali le proprie fantasie; non è compreso un discorso sull’Altro da sè, non vi è accenno al prodotto del lavoro come qualcosa che si dona ad altri. La necessità di “realizzar-si” prende il posto del desiderio di “realizzare”, di creare. Accumulare e realizzarsi non prevedono uno scambio col mondo, con le persone, con le cose. Implicano illusione di controllarle, cioè che esistano a proprio uso e consumo. Un illusione certo. Perchè l’unico vero modo di controllare, di possedere è distruggere.

E’ dentro questa cultura che il mercato del lavoro si è deteriorato. Non certo per assenza di risorse, ma per un atteggiamento nei confronti delle risorse.

Vorrei sottolineare che non si parla di qualcosa che riguarda altri, per esempio coloro che governano i mercati finanziari o coloro che dettano le politiche econimiche dei paesi, ma di una cultura che organizza il vivere della gente comune e che incontro spesso nel mio lavoro.

Un pomeriggio si presentò nel mio studio un giovane di 23 anni. Fuori corso, di molto, alla seconda università a cui si era iscritto, dopo aver ritenuto la prima troppo difficile per lui. La sua fidanzata, psicologa in formazione, più grande di lui di alcuni anni, gli aveva consigliato di fare un percorso psicoterapico, preoccupata per l’umore depresso con cui il giovane affrontava la vita. Il ragazzo ( chiamiamolo Andrea ), lamentava una stanchezza di vivere, di avere relazioni, di conoscere, di fare. Per settimane intere non usciva di casa, passando il tempo con i giochi d’azzardo online. Spesso si accaniva con gratta e vinci, schedine, lotto, superenalotto. La sua vita era un continuo tentativo di sbarcare il lunario rimanendosene a casa o tuttalpiù scendendo al bar sotto casa. Eppure per lui non sembrava un problema. Era da me solo perché si sentiva obbligato dalla sua ragazza, la odiava per questo, ma non voleva perderla. Gli chiesi se si sentiva obbligato anche ad andare all’università. O a cercare un lavoro. Mi raccontò di un padre che aveva fatto nella vita ogni genere di lavoro, inginocchiandosi, a detta sua, di fronte ai signori per guadagnare due lire. Un padre sentito come servile. E di una madre che voleva che il figlio riscattasse la famiglia da questo servilismo. Si, questo ragazzo si sentiva obbligato a fare tutto ciò che aveva intrapreso nella sua vita, così come si sentiva obbligato a venire da me. E si sentiva obbligato da un modello: non essere servo. Questo stava trasformandosi in un progressivo ritiro dalle relazioni che assicurava ad Andrea di non “servire” nessuno, in una morbosa fantasia di diventare ricco senza lavorare, per non avere bisogno di lavorare. Diventare potente era il suo desiderio segreto, mentre si riduceva sempre di più ad essere un bambino arrabbiato e impotente.

La situazione di Andrea non è certo straordinaria. Basti pensare che gran parte del sistema economico mondiale oggi si fonda sull’idea, fasulla, che i soldi si fanno con i soldi. E che l’unica utilità dei soldi è quella di fare altri soldi. Il mondo della finanza, i suoi scandali, la sua assenza di regole ne è l’esempio. Ne è una conseguenza il disinvestimento dal lavoro. Così come ne è un corollario ciò che oggi si chiama ludopatia.

Dissi ad Andrea che essere potente o essere servo non erano le due uniche possibilità di stare nelle relazioni. Gli proposi di parlarne con me ancora per qualche seduta. Incontrai Andrea per 5 volte e parlammo a lungo del suo timore di essere derubato dai suoi amici, del suo sentirsi trattato come un bambino dalla sua fidanzata, del suo aver perso un lavoro perché sfidava un capo sentito come un potere insopportabile. Andrea non se la sentì di continuare, di investire in una relazione che era così evidentemente uno scambio, qualcosa che sconfermava che si può essere solo servi o padroni. Spero che quel dubbio che insinuammo insieme abbia fatto, lentamente, il suo corso.

Per approfondimenti:

Carli, R. (2012). L’affascinante illusione del possedere, l’obbligo rituale dello scambiare, la difficile arte del condividere. Rivista di Psicologia Clinica, 1, 285 – 303.

Spunti teorici

Di cosa si occupa la psicoanalisi?

la pietra della follia
Se dico psicoanalisi cosa vi viene in mente? Ho posto questa domanda a conoscenti e, a volte, anche a sconosciuti. Ho provato a indirizzarla a professori e contadini, a commercianti ed ingegneri, a studenti e bidelli. Le parole che ho sentito più spesso di rimando sono: “Freud”, “lettino”, “cervello”, “cura”.

Io sono una psicologa specializzata in psicoterapia psicoanalitica.  Effettivamente a Freud devo molto: sono suoi i primi libri attraverso i quali mi sono avvicinata a questo mondo.  Ancora oggi ritornare su un libro di Freud vuol dire fare piccole grandi scoperte che mi aiutano a riorganizzare il pensiero.  Che proposta magnifica  quella dell’inconscio!  Una disconferma storica del mito della univocità, della oggettività, della intenzionalità; della possibilità di controllare tutto. Eppure c’è un Freud che preferisco ed uno che non tengo come punto di riferimento. Per esempio non credo che l’inconscio sia il luogo del rimosso, dove finisce tutto ciò che la coscienza rifiuta. A Freud sono seguiti altri magnifici pensatori, che attraverso la pratica clinica hanno proposto nuovi modi di pensare e trattare l’inconscio. Con i contributi di Matte Blanco, Melanie Klein, Lacan, Franco Fornari, Renzo Carli, la psicoanalisi si è arricchita. E’ cambiata. Per esempio ha pensato l’inconscio come un modo di essere della mente, molto diverso da quello razionale, ma che insieme a quest’ultimo, conosce e costruisce la realtà ( cioè le relazioni ), sempre.

Passiamo alla seconda risposta gettonatissima: “il lettino” Nel mio studio un lettino c’è, ma non è detto che io lo usi. L’utilizzo del lettino ha un senso, ma non è scontato. Insomma: non è il lettino che fa lo piscoanalista. Soprattutto, non c’è lettino nei tanti contesti che mi hanno domandato di intervenire, ed entro i quali ho lavorato con le mie competenza psicoanalitiche: la scuola, l’università, le case delle famiglie, le cooperative, le aziende, i luoghi di lavoro, le associazioni professionali, etc. Lo aveva ben scritto Racamier nel suo bellissimo lavoro “Lo psicoanalista senza divano”, dove si coglie che le categorie psicoanalitiche consentono di pensare e sviluppare relazioni, organizzazioni, istituzioni. Intendo dire che credo non siano le variabili strutturali di setting che fanno la psicoanalisi ( lettino e incontri frequenti, per intenderci ), ma che siano i modelli e le categorie di intervento che rendono un setting psicoanalitico, anche se non in senso classico.

Ma le risposte sulle quali, lo ammetto, avverto un piccolo dolorino intercostale, sono “cervello” e “cura”. Mi immagino immediatamente con camice e bisturi a sezionare materia grigia in cerca di un corpo estraneo da eliminare. Come nel geniale capolavoro di Bosch, “La pietra della follia”. Credo sia una cultura attualissima quella di individuare deficit da colmare o mali da prevenire o rimuovere. La psicoanalisi per come la intendo,  si occupa di emozioni; e le emozioni non si risolvono e non si prevengono. Per fortuna direi. Le emozioni sono il  modo in cui conosciamo il mondo ed organizziamo relazioni. Le emozioni sono l’inconscio. Anche la fantasia di poter “risolvere, curare, prevenire” è un emozione. Ed è in grado di organizzare interi contesti di convivenza; creando a volte problemi, crisi, e difficoltà di sviluppo, rispetto a cui qualcuno, ad un certo punto, sente il bisogno di capirci qualche cosa.

Di cose come queste mi occupo io. Spero, pian piano, attraverso i racconti di domande che mi arrivano, di esperienze di intervento e di riflessioni, di potere articolare e rendere più comprensibile questa suggestione.