Lavoro, Spunti teorici

Liberi e impotenti: uno sguardo sulla retorica del successo.

uomini_liquidi_N

Non siamo mai stati così liberi. Non ci siamo mai sentiti così impotenti”. Così il sociologo Z. Bauman parla di quel paradosso dell’occidente per cui, a fronte dell’affievolirsi di vincoli che caratterizza la contemporaneità, cresce un senso di angoscia che immobilizza le persone.

E’ interessante l’interpretazione che ne dà Paul Verhaeghe[1] nell’articolo intitolato “Tutta colpa del neoliberismo”, pubblicato su “The Guardian” qualche giorno fa[2]. (http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/sep/29/neoliberalism-economic-system-ethics-personality-psychopathicsthic )

Sintetizzerei il discorso di Verheaghe in questo modo: la libertà di cui godiamo è fasulla, perchè costretta entro la retorica del successo. In altre parole, siamo liberi di fare come vogliamo, purchè l’obiettivo sia avere successo, farcela, emergere. Siamo bombardati costantemente da questa cultura: chiunque può farcela se si impegna duramente. Il successo dipende dal talento e dall’impegno dell’individuo.

La retorica del successo sarebbe in stretta relazione con l’eclissarsi della solidarietà come valore fondante la convivenza: se la preoccupazione è quella di avere successo è difficile non guardare all’altro come ad un concorrente; così, a lavoro per esempio, si indeboliscono i legami sociali con i colleghi ed il senso di appartenenza all’organizzazione per cui si lavora.

Che fine fa l’identità delle persone entro questa cultura se è vero, come sottolineano molti psicoanalisti, che una delle componenti fondanti l’identità è “essere riconosciuti dall’Altro”? Che fine fa l’identità se oggi essere riconosciuti vuol dire centrare l’obiettivo del successo?  Per chi “ce la fa”, si tratta evidentemente di incassare un riconoscimento fasullo:  piuttosto è uno sguardo che invidia, che vorrebbe impossessarsi della fortuna altrui, che auspica il fallimento altrui per potere sentirsi meno minacciato, meno piccolo. Chi rimane indietro, entro la retorica del successo, è un parassita, uno scroccone, un bamboccione, un inetto.   Se non hai successo… non sei nessuno ( mai modo di dire fu più azzeccato ).

Il successo di cui si parla sembra davvero una trappola mortale, qualcosa che è destinata a mortificare piuttosto che a far sentire vivi.

Viene in mente che la parola successo è il participio passato del verbo “succedere”.  Implica qualcosa che si è conclusa, che è accaduta, che è dietro le spalle. Non c’è futuro nella retorica del successo, ma solo una preoccupazione per ciò che si riesce a incassare, a finire, a portare a termine. Non è prevista apertura. E’ un prendi e porta a casa. A casa tua.  Nella retorica del successo impera una visione individualistica e manca una idea di futuro. Le due cose sono strettamente correlate. Il futuro non è mai futuro individuale. E’ futuro collettivo e non può essere altrimenti: il futuro implica un oltre l’individuo, un dopo l’individuo.  Senza una idea di futuro l’atteggiamento nei confronti del mondo è un atteggiamento predatorio. Prendi e porta a casa, appunto. Senza una idea di futuro le risorse sono qualcosa da consumare, possibilmente prima che le consumi qualcun altro. E’ la logica delle fette di torta da spartirsi. E in questa logica l’Altro ( persona o gruppo )  è sempre nemico, dato che è colui che può sottrarti qualcosa.  Siamo all’ homo homini lupus  di hobbesiana memoria.

Effettivamente mancano le premesse per un riconoscimento reciproco in questo terreno. Ma è proprio tutto così? Sembra che nel discorso di Verheaghe manchi un’alternativa; anzi sembra che l’alternativa sia impossibile entro la cultura in cui tutti siamo immersi. Credo che l’alternativa manchi non perché non esiste, ma perché fuori dalla pratica clinica è difficile individuarla. E credo anche che una delle funzioni sociali della psicologia e della psicoanalisi sia quella di individuare e valorizzare alternative alle culture dominanti e senza prospettive.

Penso ad un progetto sullo stress lavoro correlato con liberi professionisti di cui mi sto occupando attualmente: si tratta di gruppi di formazione e consulenza psicologica che aiutano chi vi partecipa a leggere lo stress come segnale di una cultura lavorativa problematica e a intervenire su quest’ultima. La libera professione è forse la categoria più a rischio di invischiamento nella retorica del successo così come l’abbiamo descritta finora e credo che questa cultura sia una matrice potente di stress.

In un gruppo di lavoro con avvocati, per esempio, è emersa tutta la problematicità di una comunità professionale molto frammentata, conflittuale, organizzata da una forte competitività. Ma anche un desiderio profondo di riconoscere i rapporti di colleganza come risorsa in un periodo di crisi e cambiamento della professione forense.  Si può dire che questi professionisti chiedono di smetterla di competere con i colleghi per accaparrarsi i clienti; ovvero di imparare a collaborare con i colleghi per capire come avere a che fare con un cliente nuovo, che chiede cose diverse e non scontate. Il punto è proprio questo: recuperare che si lavora per qualcuno e non per accaparrarsi qualcuno. E se si lavora per qualcuno, il collega, l’amico, il formatore, il capo, il dipendente, non possono che essere una risorsa.

Chiedersi per chi si lavora, avere strumenti per capire cosa chiede e perché, è un’alternativa alla cultura del successo.

Uscire dalla fantasia che il lavoro sia uno strumento di realizzazione personale (o di sopravvivenza, che è l’altra faccia della medaglia)  e recuperare la sua funzione sociale è un passo in direzione di una costruzione di identità ( non solo professionale) e limita la fantasia di dover abbandonare il lavoro per sentirsi liberi. E’ come dire che è molto più utile, anche ai fini della stima di sé, chiedersi a cosa serve il mio lavoro, che domandarsi qual è il lavoro che può servirmi di più.

E’ un altro modo, questa volta reale, per avere a che fare con l’Altro, per riconoscere ed essere riconosciuti dall’Altro.

[1] Professore e Presidente del Dipartimento di Psicoanalisi alla Ghent University _ Belgio [2] SI trova una traduzione in italiano a questo link: http://www.thepostinternazionale.it/mondo/regno-unito/tutta-colpa-del-neoliberismo

attualità, Spunti teorici

Consumare risorse o produrre risorse: due culture a confronto

(…) “Comunismo e cattolicesimo, sia pure in modo diverso, rendevano il presente come funzionale al futuro. La speranza stava nel futuro. Un futuro situato nel solidarismo che preparava all’aldilà per i cattolici; situato nel cambiamento del mondo e dei destini del proletariato per i comunisti. La speranza nel futuro condizionava il comportamento ed i valori del presente. Tutto questo aveva ripercussioni di grande rilievo sui valori che reggevano il presente e sul modo di responsabilizzare le decisioni entro la vita attuale. (…)

Non sono solo i movimenti politici del nostro paese a determinare questo cambiamento. Pensiamo alla globalizzazione da un lato, allo spostamento dell’economia dalla produzione alla finanza dall’altro. Pensiamo alla profonda crisi economica che attanaglia da quasi 10 anni il mondo occidentale europeo, all’allargamento della comunità europea, all’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione che hanno cambiato radicalmente i rapporti tra persone e gruppi sociali. Il passaggio dalla speranza nel futuro alla ricerca di gratificazione nel presente sia nelle singole persone che nel sistema dei rapporti culturali. ( …)

Si è da più parte sottolineato come la speranza nel futuro motivi a sopportare il presente. Ma si è anche visto come la speranza motivi ad un impegno anche faticoso e sofferto nel presente. (…) La speranza nel futuro motiva al miglioramento sia individuale che sociale. Un miglioramento che concerne le persone e i sistemi organizzativi. Lo sviluppo , la crescita, il miglioramento, l’uso sempre più competente delle risorse, l’approfondimento delle conoscenze nell’ambito delle competenze emozionali, il miglioramento delle competenze organizzative, tutto questo appartiene ad una cultura che crede nel futuro e che è convinta del suo sviluppo. ( … )

Chi è attento soltanto al presente sviluppa di contro una atteggiamento di rapina, ove l’avidità da soddisfare è incurante del futuro, attenta solo a dare corpo alla cupidigia violenta e distruttiva di chi non si interessa minimamente a quanto succederà in quanto conseguenza del proprio operare. Per chi è attento solo al presente prevale la convinzione che ogni atto non abbia costo, sia priva di conseguenze per il futuro del contesto entro il quale si vive.

Vorrei che considerassimo attentamente questa componente del vivere solo nel presente. L’avidità che regge l’accumulo di gratificazioni materiali, indipendentemente da ogni previsione sul futuro è tipica della delinquenza, in particolare della delinquenza organizzata. ( … )

Chi vive nel presente senza cura e attenzione al futuro può essere motivato solo dall’avidità, dal consumo delle risorse senza alcuna motivazione al produrre trasformazioni del contesto utili al futuro. La trasgressione, la violazione delle regole del gioco la distruttività ingorda e irresponsabile vivono e agiscono in un presente fine a se stesso profondamente individualista, ove la dinamica delle relazioni è fondata solo sull’efficacia trasgressiva. Lo stato di diritto è stato corrotto e dissolto dal malaffare e dalla corruzione. Ciò che sembra in crisi nel nostro paese è il senso dello stato. ( … )

L’attuazione immediata dell’avidità rende impossibile il desiderare, Il desiderio comporta un progetto sul futuro, una proiezione del proprio agire entro una trasformazione finalizzata e pensata della realtà. Il desiderare è una scommessa con il futuro. (…)

casi clinici, Scuola

Ancora su autonomia e disabilità a scuola: tracce di una difficoltà a progettare.

Ritorno a parlare del problema dell’autonomia negli interventi con la disabilità a scuola. Lo farò riportando alcuni casi che ho seguito come consulente entro scuole superiori, come formatrice di personale di assistenza alla disabilità o come supervisore.

Spesso ho incontrato nelle scuole per cui ho lavorato una evidente difficoltà a “diplomare” gli studenti con una qualche diagnosi. Sono diversi i casi di studenti fermati agli ultimi anni di scuola. Il problema del fermare compare puntualmente ogni volta che uno studente con diagnosi raggiunge il quinto ed ultimo anno di scuola. Un esempio: 

In un istituto professionale un GLH[1] straordinario viene convocato per uno studente al quinto anno, Luca, che ha seguito, anzi puntualmente disertato, un programma con obiettivi minimi, del quale per altro si dubita che Luca possa dar conto entro una verifica. Il problema è che, “data la poca voglia del ragazzo di impegnarsi in un programma di studio, seppur minimo, si è insistito su compiti di autonomia.”  Mi racconta questo episodio l’assistente specialistica di Luca entro un corso di formazione. Le chiedo quali siano questi compiti di autonomia. Mi dice di non saperlo: lei si è occupata di altro, cioè della socializzazione di Luca con la classe. Ora però nessuno sa sulla base di quali competenze diplomare Luca.

E’ sintomatico che nel racconto dell’assistente Luca sia diventato un “ragazzo”, cioè ha perso lo status di studente. La assistente tralascia anche la sua diagnosi, come se non avesse nulla a che fare con le sue difficoltà. Ipotizzo che stia parlando di un altro problema. “Fermare” nel gergo della scuola sembra il sintomo, palesemente violento nella sua vicinanza al linguaggio delle forze dell’ordine, con cui si esprime la difficoltà di dare un senso al percorso scolastico, la cui verifica diventa una minaccia da allontanare. Con gli studenti disabili diventa particolarmente evidente che i programmi scolastici rappresentano più un rito controllante che non un progetto. E se i programmi falliscono ci si appella a non meglio formalizzati percorsi di “autonomia” o “socializzazione” per poi non sapere come verificarli, cioè come licenziare/diplomare questi studenti. In altre parole gli studenti disabili riescono a mettere in crisi la fantasia che sia sufficiente la qualifica – diploma come prodotto del percorso scolastico.

Mi vengono in mente anche numerosi casi in cui gli studenti disabili alle scuole superiori vengono esclusi dalle attività di tirocinio svolte dai loro compagni, perché “hanno compiti di autonomia più urgenti su cui lavorare”. Ancora un esempio.

In una della scuole in cui ho lavorato uno studente al secondo anno, con diagnosi di ritardo lieve, segue una programmazione differenziata che mi dicono essere stata pensata per lui durante il primo anno, quando il ragazzo sembrava spaventatissimo dal nuovo contesto scolastico. Sono state escluse le materie di indirizzo (turistico) per attenuare il cambiamento e sono stati introdotti esercizi continui di copia e calcolo. La finalità dichiarata è quella di incrementare la sua autonomia (?!) prima di inserirlo nei tirocini, per evitare che questa novità lo spaventi di nuovo.

C’è da chiedersi chi è più spaventato, se il ragazzo o la scuola, che sembra impegnata ad evitare che vengano disturbate prassi istituite. Questo impegno è agli antipodi della competenza a progettare, laddove per progettare intendo la possibilità di riconoscere domande sulla cui base convenire obiettivi. In questo caso è evidente come si cerchi di evitare al ragazzo di domandare alcunché, controllandolo attraverso gli esercizi di copia e calcolo, facendo riferimento alla fantasia di autonomia come acquisizione del massimo di conformità alle attese degli altri.

Voglio dire che la presenza di disabili a scuola può diventare davvero preziosa. Per esempio in questi casi svela una difficoltà delle scuole a pensare al rapporto tra formazione e futuro degli studenti. E implica la possibilità di pensarci e di lavorarci. Una grande opportunità!teatro integrato piero gabrielli

Sempre che la scuola non viva il cambiamento che la disabilità dà occasione di progettare come una minaccia nei confronti di prassi istituite. Minaccia da tenere a bada, per esempio attraverso riti controllanti a cui si dà il nome di “autonomia” e che prendono il posto di una seria riflessione sul futuro post scolastico degli studenti; disabili e non.

[1]  Gruppo di Lavoro sull’Handicap, introdotto dalla L. 104/92 come strumento di raccordo tra territorio, scuola e famiglia, per la costruzione e verifica di piani educativi e di integrazione degli studenti disabili.