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“Pensa, prima di parlare”. Un evento per discutere di nuove e vecchie forme di emarginazione delle donne.

 

femministe italianeI giochi di potere non sono solo maschili, sono anche noiosi.

E’ uno degli slogan che, scritto a grandi lettere sul basamento di una colonna, si può leggere se si ha la fortuna di entrare a Palazzo Nardini, storica sede del Movimento di Liberazione della Donna, occupata negli anni 70 da centinaia di donne, ragazze, bambini e neonati in carrozzina, che inseguivano un sogno di dignità e libertà.

E’ una frase forte; vera, soprattutto. Perché quando le relazioni sono orientate alla spartizione dei poteri non prevedono nessuno sviluppo. Non prevedono cambiamento. Sono noiose, appunto.

Ancora oggi, entro molti contesti ( soprattutto quelli in crisi, come la famiglia, la scuola, alcuni contesti professionali ) le relazioni si organizzano secondo la fantasia che ciò che conta è conquistare e preservare potere. Come se non ci fossero altri modi di contare qualcosa, di essere qualcuno. Questa fantasia genera una violenza che si esprime in infiniti aspetti della relazione. E a farne le spese sono spesso quelle categorie sociali che, storicamente e socialmente, sono più a rischio di emarginazione; per esempio le donne, i bambini, gli anziani, i disabili, i giovani. Cioè tutti coloro che propongono un’estraneità, una diversità, rispetto ai poteri culturalmente dominanti. Tutti coloro che potrebbero introdurre novità, variazioni, imprevisti.

Credo che il cambiamento e lo sviluppo dei contesti siano quelle cose su cui lavorano la psicologia e la psicoanalisi. E credo che questo cambiamento passi attraverso un pensiero emozionato sulle dinamiche che bloccano.

Per questo ho accolto con piacere l’invito del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bari a parlare dei significati della violenza, in occasione dell’evento sulla violenza verbale nei confronti delle donne, che si terrà il 7 marzo presso la Libreria Laterza di Bari.

Sarò presente per proporre degli spunti di riflessione, ma anche per ascoltare con curiosità l’esperienza e le idee delle persone che parleranno. Avvocate e giornaliste, per lo più; ossia professioniste che vivono ambienti professionali molto competitivi; una competizione che spesso si esprime nel marginalizzare le donne. Ma anche professioniste che, in qualche modo, ce l’hanno fatta: si sono fatte largo entro campi della vita professionale che un tempo erano di esclusiva competenza maschile; hanno lavorato sodo, portando entusiasmo e, a volte, innovazioni e piccole rivoluzioni. Che oggi ancora pensano iniziative ed interventi per smascherare una cultura maschilista che oggi si esprime in modi meno diretti e meno riconoscibili. Con qualche stanchezza, certamente. Che mi auguro non sia sufficiente a farle cadere nella trappola di quei “giochi di potere” che anni fa l’MLD denunciava a gran voce; e che le consenta di continuare a promuovere una cultura della competenza, invece che della competizione.

L’appuntamento è alle 18 del 7 marzo presso la libreria Laterza di Bari. Una sede importante, che dai primi del 900 ha visto intellettuali e pensatori discutere e confrontarsi sul futuro della nostra società.

locandina evento violenza verbale

Interverranno:

Giovanni Stefanì, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari

Giovanna Brunetti, presidente del Comitato pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bari

Sonia Giuliano, psicologa specialista in psicoterapia psicoanalitica, autore per la Rivista di Psicologia Clinica e blogger in psicoanalisieconvivenza.com

Giusy Stragapede, psicologa psicoterapeutica ad indirizzo dinamico, presidente dell’Associazione Gruppo Utile Onlus

Rossella Matarrese, giornalista Rai, coordinatrice di Giulia per la Puglia, rete Giornaliste Unite Libere Autonome

Maria Laterza, direttrice libreria Laterza.

Interverrà, a sorpresa, il Teatro delle Bambole.

 

Si tratta di un incontro aperto; vi aspettiamo.

casi clinici, famiglia

Donna, madre, e…? Riflessioni sul rapporto tra il dentro ed il fuori della famiglia.

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Negli ultimi giorni, come sempre accade intorno all’8 marzo, sono comparsi molti articoli riguardo la condizione, i problemi e i vissuti della donna nella società contemporanea.

Hanno parlato anche alcuni psicoanalisti illustri, come Massimo Recalcati, di cui segnalo l’articolo comparso su repubblica il 28 febbraio:

Ciao figlio. E’ tempo della mamma narciso.              http://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2015/03/Ciao-figlio.pdf

Si parla del rapporto tra la donna e la madre; un rapporto conflittuale secondo Recalcati, in cui, a seconda del periodo storico ha la meglio l’una o l’altra componente dell’identità. Nella società patriarcale la donna era sacrificata alla madre, la quale esisteva per i figli, per la famiglia. Deriva di questo sacrificio era una spinta a fondersi con i figli, una difficoltà a separarsene, una tendenza fagocitante, controllante. La patologia del materno, dice Recalcati, era la trasfigurazione dell’accudimento in una gabbia dorata in cui non è prevista separazione.

Oggi, mutate le condizioni sociali, la donna non reclama più il possesso dei propri figli, ma rivendica la possibilità di liberarsene, di volere altro per sé, di guardare altrove. La madre narcisista che considera i figli un peso mortificante, a dire di Recalcati è la nuova patologia del materno: “Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna.”

Leggendo l’articolo pensavo insistentemente a Dalila, una donna di circa 40 anni, sposata, con due figli. Mi chiese una consulenza perché non riusciva più a gestire sua figlia quattordicenne: stava iniziando a truccarsi e a vestirsi in modo molto provocatorio, frequentava compagnie “pericolose” di ragazzi molto più grandi e a scuola rischiava una seconda bocciatura. Temeva che sua figlia avesse qualche problema, aveva paura che finisse in qualche brutto giro, che qualcuno fraintendesse la sua spigliatezza e ne approfittasse.

Dalila era una donna di bell’aspetto. Una bellezza che sembrava volutamente addomesticata nell’ordine sobrio della pettinatura e del vestiario scuro.

Al primo colloquio per un’ora intera parlò di sua figlia e di quanto le facesse paura l’esplosione della sua seduttività, del suo desiderio. Il desiderio di chi? – mi chiedevo mentre parlava.

Allora le chiesi cosa facesse nella vita: di cosa si occupava, cosa le piaceva? Sembrò spiazzata da questa domanda, quasi infastidita, come se stessi violentemente spostando i riflettori dal palcoscenico al regista dietro le quinte.   Mi disse che faceva la mamma e la moglie e che non aveva tempo per altro. Si era sposata molto giovane; le sarebbe piaciuto lavorare, ma non sa che cosa avrebbe potuto fare. A scuola era una “capra”, l’unica cosa che sapeva fare era creare dei gioielli artigianali. Ma ormai non avrebbe saputo da dove cominciare. Forse avrebbe dovuto continuare? – si domandò a fine colloquio. Forse non avrebbe dovuto lasciarsi mettere in gabbia? Ecco – dice – si sente in gabbia e vorrebbe scappare. Mi chiese se pensavo che avrebbe dovuto lasciare sua figlia al suo destino per occuparsi finalmente di sé stessa.

Dalila aveva iniziato dalla trasgressività di sua figlia per parlare della sua trasgressività.

Era passata nel corso di un colloquio ( e non nel corso di un secolo ) dalla madre fagocitante e controllante messa in scacco dalla figlia ribelle ( unico destino possibile della madre che incorpora ) alla madre che rivendica la sua libertà e che desidera liberarsi dei figli.

E cercava di mettere in gabbia anche me, chiedendomi di avallare l’una o l’altra strada e di semplificare così un problema molto complesso. Potremmo dire che il “fagocitare/espellere” è una modalità dell’inconscio per semplificare la complessità emozionale delle relazioni. Sono due facce della stessa medaglia.

E non credo che il problema fosse, seguendo Recalcati e anche un po’ il buon senso, quello di “connettere generativamente l’essere madre e l’essere donna”, ma piuttosto quello di riconoscere la complessità dei desideri e delle paure in gioco.

Pensiamo alla figlia quattordicenne di Dalila, che evidentemente seduceva anche la madre con i suoi comportamenti, cioè la legava a sé facendola preoccupare; e contemporaneamente ne provocava il desiderio nascosto di trasgressione, sollecitandolo. E che era anche altro oltre che figlia: per esempio era una ragazza che temeva di confrontarsi con i passaggi evolutivi ( era la seconda volta che rischiava di non farsi ammettere agli esami di terza media ) e che si spostava artificiosamente in avanti attraverso l’uso del corpo e delle relazioni.

Pensiamo a Dalila che si sentiva incastrata nel ruolo di madre e al contempo sollecitata nella suo stesso desiderio di trasgressione; che si sentiva in gabbia non tanto perché costretta dall’atteggiamento della figlia, ma perché la figlia le ricordava che, anche lei, non sapeva cosa altro desiderare, verso quale futuro guardare.

Più che connettere il ruolo di madre ( o figlia ) e di donna direi che oggi la sfida è quella di riempire di senso questi titoli, riconoscendo di essere anche altro. Cittadina, per esempio; ingegnera, insegnante, operatrice ecologica, segretaria. Una giovane donna che sapeva realizzare gioielli artigianali. Una ragazza che ha paura del futuro. E partire da lì per immaginare il futuro, per pensarlo, progettarlo, costruirlo. E’ dentro questa possibilità che ci si accorge che la contrapposizione – culturale – tra madre, donna e “qualsiasialtracosa” è fasulla e che, anzi, solo sentendosi anche altro è possibile sentirsi madri e donne.

E, perché no, padri e uomini. Intendo dire che il discorso può svolgersi anche al maschile. Tuttavia è più raro che ci si ponga il problema del rapporto tra uomo e padre ( caso mai si parla della paternità in sé ) perché il discorso culturale dà per scontato che si sia anche altro oltre che uomo e padre. Mentre per la donna evidentemente non è ancora così.

Ma il punto è che oggi è culturalmente difficile investire su altro che non sia la famiglia. Ed è difficile per le famiglie realizzare che la propria funzione è quella di preparare i suoi membri ad avere a che fare col fuori, ad investire su obiettivi esterni. L’illusione è che si possa stare dentro, pensarsi dentro, al riparo, tutta la vita. E che si debba lavorare per renderlo il migliore dentro possibile.

E’ questa implosione che organizza rapporti violenti e impossibili nelle famiglie. E’ pensarsi solo madri o padri che rende impossibile essere genitori. E’ pensarsi solo donna o uomo che rende impossibile essere persone, coniugi, cittadini, lavoratori, … Ciascuno continui come vuole.