attualità

Le procedure e le emozioni. Qualche parola sul disastro aereo Germanwigs.

Diagnosticare è un termine che ha origine dal greco  (διά + γιγνώσκειν) e significa “conoscere attraverso”. Si può usare la diagnosi per conoscere, per dare senso a sintomi e vissuti; intesa come momento conoscitivo, esplorativo, la diagnosi può essere una parte fondamentale di un intervento “psi” a fronte di una domanda di aiuto.

Ma si può usare una diagnosi anche per smettere di interrogarsi, per chiudere un problema, per non pensarci più. L’atteggiamento diagnostico inteso in questo senso è molto comune: tizio è silenzioso perché è timido; caio alza la voce perché è aggressivo; sempronio non sta mai fermo perchè è iperattivo.  E’ la diagnosi che spiega. Sono modi che utilizziamo per smettere di capire cosa accade in un contesto, in una relazione. Ed è un modo con cui sempre più frequentemente anche la psichiatria e la psicologia trattano le emozioni. La diagnosi riduce le emozioni impreviste a disturbo da etichettare, quindi da tenere a bada.

Negli ultimi giorni i media, complici fior fiore di professionisti della psichiatria e della psicoterapia, hanno prodotto centinaia di diagnosi di questo tipo in relazione al disastro aereo causato dal copilota Andreas Lubitz, che ha portato l’aereo Germanwings a schiantarsi contro le Alpi francesi, con circa 150 persone a bordo.

Depressione è la versione più accreditata. Alcuni parlano di sindrome da burn out (una sorta di esaurimento emotivo in relazione alla vita lavorativa). Qualcuno di delirio paranoico. Ieri ho ascoltato uno psichiatra parlare molto seriamente, ad uno dei TG più seguiti dagli italiani, di narcisismo di morte. Come non conoscerlo, il narcisismo di morte! Ci sarebbe da chiedersi che senso ha parlare di narcisismo di morte in un telegiornale, dato che nessuno capirebbe di che si tratta. Certamente un narcisismo poteva essere compreso anche dai profani, ed era quello dello psichiatra che utilizzava queste parole “dotte”, ovvero incomprensibili ai più.

Ma il punto non è che vengano supposte diagnosi poco sensate. Il punto è che ogni diagnosi in questo caso è senza senso. Perché non ha senso una diagnosi post mortem; o meglio è evidente che, non potendo essere un momento conoscitivo di un rapporto terapeutico, si tratta di un tentativo di risolvere, chiudere un problema, riducendolo ad un disturbo mentale individuale. Non ad uno dei familiari delle vittime sarà utile. Non ai genitori di Andreas, che vivono un momento drammatico, lacerante. Non a chi oggi si domanda quanto è sicuro viaggiare in aereo.

Definire il disturbo mentale di A. sembrerà forse utile alle compagnie aeree, in cerca di qualcosa da prevenire attraverso il perfezionamento delle procedure di sicurezza, prima e pronta risposta data in questi giorni.  C’è qualcosa di paradossale in questo perché A. ha distrutto un aereo proprio servendosi delle procedure di sicurezza. Se ci si pensa, si può comprendere lo sbigottimento delle compagnie ed il loro tentativo di aggiungere e perfezionare procedure (compresa quella di intensificare i check up medici e psicologici del personale di volo).

Non credo sia una risposta sufficiente. Un pilota e blogger americano, Patrick Smith, scrive sul suo blog che mai nessuna accuratissima procedura sarà in grado di garantire l’assenza di imprevisto: “tutti i test medici del mondo non potranno escludere con certezza la possibilità di un crollo nervoso”. Sono d’accordo.  Anzi proprio la ossessiva affezione alle procedure ed al controllo  credo abbia avuto un ruolo in questa vicenda.

Si pensi per esempio ad Andreas, l’insospettabile, che ha tenuto perfettamente sotto controllo le sue emozioni, tanto da non far sorgere il minimo dubbio a colleghi e familiari che potesse essere utile fermarsi a capire che succedeva.

Negli ultimi tempi molti pazienti arrivano domandando di riuscire a controllare le proprie emozioni: si arrabbiano troppo e vorrebbero essere più ragionevoli, si appassionano troppo e vorrebbero rimanere più lucidi. Chiedono di imparare l’arte dell’autocontrollo. E’ un modo di trattare le emozioni: si può pensare che siano un fastidio, un ostacolo alla relazione sociale ( in particolar modo le cosiddette emozioni negative), da tenere a bada, da domare, silenziandole; si può temere di perdere cose e persone a cui si tiene a causa delle emozioni. Si può temere di distruggere ciò che si ama a causa delle emozioni. Si capisce che, viste in tal modo, le emozioni vengano simbolizzate come qualcosa da reprimere o eliminare. Da tenere sotto controllo.

Una cosa che si è capita di Andreas è che fosse davvero appassionato al suo lavoro. Pilotare aerei era sempre stato il suo sogno. Sembrerebbe che il lavoro, quel lavoro così tanto caratterizzato dal controllo e dall’applicazione di procedure, fosse la ragione di vita di A., che fosse un modo per A. di esercitare la sua esigenza di controllo. E si è capito che era in corso un percorso medico e diagnostico che avrebbe potuto portargli via quel lavoro così vitale. Una perdita di controllo  insostenibile. Una messa in scacco della illusione di poter controllare se stesso ed il rapporto con il mondo.

Controllare è sempre un illusione. Non si controlla alcunchè in realtà. Chi controlla non è mai pienamente soddisfatto del suo controllo poiché rimane sempre uno scarto irriducibile tra la propria esigenza di controllo e l’esistenza di ciò che è altro da sé; direi anche l’esistenza di sé stessi: se il tentativo è di domare ciò che si agita dentro, ciò che tieni fermo per le zampe si muove con la coda.   Andreas Lubitz ha tragicamente reificato l’unico vero modo di controllare, cioè distruggere. Solo distruggendo si annulla quello scarto tra la propria esigenza di controllo e le Cose.

Ma controllare, non è l’unico modo di simbolizzare e trattare le emozioni o lo scarto tra se ed il mondo. Per esempio delle emozioni si può parlare. Le si può conoscere. Le si può usare come informazione su ciò che accade in una relazione, in un contesto. Ci si può separare dalla proprie emozioni, dalle fantasie, le si può pensare, invece di agirle. Ma sono necessari contesti in cui sia possibile ciò, in cui le emozioni non siano considerate solo come qualcosa da arginare entro procedure.

Allora mi domando se un problema delle compagnie aeree in questo momento non sia quello di offrire contesti in cui questo sia possibile. Oltre che introdurre nuove regole e procedure (reputo di buon senso l’idea che al comando di un aereo non si rimanga mai soli, per molti motivi, non solo per paura che qualcuno sia malintenzionato) si potrebbe prendere atto che il lavoro di piloti e personale di cabina è un lavoro complicato e in rapido mutamento. Un lavoro che comporta una elevata responsabilità e al contempo vincolato a rigidissime procedure. Un lavoro che comporta il mettersi in relazione con emozioni di paura, la propria e quella dei passeggeri, rispetto alla quale le procedure non sono mai sufficientemente rassicuranti. Un lavoro che perde rapidamente prestigio sociale e le cui condizioni sono spesso difficili da conciliare con una eventuale famiglia.

Allora una buona idea potrebbe essere quella di offrire a questi lavoratori degli spazi di pensiero sul proprio lavoro e sui vissuti implicati: il rapporto con le procedure, con la responsabilità, con i vissuti e le proposte dei passeggeri. Offrire spazi per parlare dei problemi che si incontrano nel proprio lavoro potrebbe essere la sconferma che il proprio contesto lavorativo non accoglie emozioni e che queste sono da controllare, nascondere, reprimere, silenziare; nella speranza che non esplodano.

casi clinici

Quanto costa la fantasia di essere perfetti; un caso di “anoressia”.

balthus2

Iris è una ragazza molto carina, minuta, sorridente. Ha 19 anni, frequenta l’ultimo anno di liceo e sta preparando gli esami di maturità. Quando la incontro la prima volta mi parla a lungo della sua ossessione per il cibo: Iris teme di essere diventata anoressica. Effettivamente me ne parla ossessivamente, nel senso che indugia in un racconto minuzioso della sua dieta, degli alimenti che può e non può mangiare, dei grammi che può ingerire.

Crede che la causa del suo disturbo siano degli episodi che l’hanno fatta soffrire. Due anni prima scopre su facebook una relazione extraconiugale di sua madre con un amico di famiglia. Iris è figlia di secondo matrimonio della mamma e si è sentita tradita e delusa, ha avuto paura di perdere la sua famiglia. Da alcuni mesi Iris ha lasciato il suo fidanzato, con cui è stata per 4 anni, presentendo la presenza di un’altra ragazza nella vita di lui. Da poco ha scoperto su facebook che la nuova fidanzata dell’ex la prende in giro con l’appellativo di “balenottera”. E’ qui che comincia a controllare rigidamente la sua alimentazione e perde 15 k in 4 mesi. Ilenia pesa ora 54 kili, un peso che definisce “ideale”. Non è un “peso nuovo”; piuttosto sembra che Ilenia abbia voluto recuperare la forma fisica che aveva prima di ingrassare progressivamente negli ultimi anni del liceo. Mi chiede di aiutarla ad uscire da questa sua ossessione per il cibo.

Le chiedo da dove venga la “diagnosi di anoressia”. Mi dice che ha fatto delle ricerche su internet e ha dedotto che il suo problema si chiama così. Un’altra scoperta fatta su internet!! Mentre Iris racconta, la immagino come se vivesse perennemente davanti allo schermo del pc; sembra che Iris dica di assistere ai rapporti, e di giudicarli chiamandosene fuori. Anche io mi sento di assistere alle vicende che Iris racconta e mi sento convocata a valutare la pertinenza delle sue conclusioni e della sua domanda di aiuto. Le faccio presente la mia sensazione. Ilenia utilizza questo spunto per raccontarmi di altri episodi: ad esempio mi dice che in seguito ad alcune crisi di pianto sia sua madre che le sue amiche la hanno esortata a rivolgersi ad uno psicologo, per poi dimenticarsene il giorno dopo; iris si sente non compresa, abbandonata, tradita, scaricata.  In opposizione a questi episodi mi parla del suo nuovo fidanzato: con lui sta bene perché lo sente simile, quindi vicino: anche lui è “un perfettino”, uno a cui piace essere lodato, ammirato.

Continuo ad utilizzare la pista dei rapporti come luogo in cui assistere ed in cui lasciare ad assistere, e le chiedo se va bene a scuola. Ilenia dice di essere sempre stata “brava”. Ha sempre fatto sport a livello agonistico, nuoto e poi karate.  Dice che la sua vita è stata tutta così… le hanno sempre detto “brava”. Tra poco avrà gli esami e non è preoccupata perché ha sempre studiato e sa che andrà bene.

Sembra proprio che l’anoressia di cui parla Iris sia un modo per denunciare quanto costa essere ideali, “perfettini”, come le piace dire. “Fammi uscire da questa gabbietta”, sembra dire Iris, che comincia ad intuire che la fantasia di essere perfetti significa lasciare gli altri a guardare, senza entrarvi mai in rapporto. Forse viene da qui la paura di Iris di essere abbandonata, tradita, scaricata. Controllare il cibo sembra un modo per assicurarsi che chi le sta vicino non la abbandoni ( me compresa ), che si occupi di lei. Un modo per controllare gli altri, al rovescio del suo essere brava, che non funziona più. Ma è anche un modo per chiedere aiuto. Un grido che spera che qualcuno si accorga che non le basta più sentirsi dire brava, ma non sa che altro fare.

Le dico questo. Ipotizziamo insieme che questa sua domanda di consulenza abbia molto a che fare con la conclusione del suo percorso di studi, nonostante Iris ci tenga a dire che gli esami non sono un problema: forse per concludere ed utilizzare 5 anni di liceo non basta essere bravi. Bisogna sapere desiderare e progettare. E per desiderare e progettare è necessario entrare in rapporto con le persone – invece di trattarle come spettatori – e con la propria storia – invece di trattarla come una performance. Le restituisco anche l’ impressione che mi chieda di starle vicino, di non scappare.  Le dico che credo di poterle stare vicino, ma non perché è “anoressica”. Il mio starle vicino implica l’interesse a ripensare insieme a lei il dilemma che mi pone, nell’idea che sia utile anche al passaggio che sta affrontando con l’esame di maturità. Iris si commuove e mi chiede di poterci incontrare ancora. Con Iris abbiamo lavorato in un percorso di consulenza durato un anno, sino al passaggio dal liceo al mondo del lavoro. Credo che questo percorso sia stato possibile grazie al non prendere sul serio la diagnosi di Iris, che sembrava l’unico modo che Iris aveva per far sì che mi interessassi a lei.  Col tempo abbiamo scoperto che si può stare insieme sull’interesse comune per qualcosa – ad esempio il suo futuro- invece che sul risultare amabili, bravi, degni di attenzione per l’altro. Non intendo dire che l’anoressia abbia sempre a che vedere con tali questioni e che possa sempre concludersi in questo modo. Certo c’è sempre un parallelismo da pensare tra il rapporto con il cibo ed il rapporto con le persone, con i contesti di appartenenza, con il mondo. Ma è un rapporto simbolico che va pensato e conosciuto ex novo nella specificità, nella univocità di ogni caso, di ogni domanda di consulenza.

Per approfondimenti:

Una interessante lettura simbolica, antropologica e storica dell’anoressia si trova in:  

Bell, R.M. ( 1998 ), La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi. Laterza Editori, Roma.