attualità, casi clinici

La crisi economica da un punto di vista psicoanalitico. Un caso.

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Dal 2007 sentiamo parlare di crisi. Calo dell’occupazione, assenza di prospettive per i giovani, zero crescita. Si fa riferimento allo spread, al debito pubblico; si sente spesso dire che non vi sono più risorse. Eppure alcuni dati insinuano quantomeno un dubbio sulla natura di questa crisi, che chiamiamo economica, ma che ha profondamente a che fare con modelli di relazione.

Qualche esempio. Nell’ ultimo anno la ricchezza complessiva mondiale è aumentata dell’8,3%. In Europa del 10,6%. L’Italia segue lo stesso trend, piazzandosi prima della Germania. Negli ultimi 10 anni la ricchezza globale è aumentata del 46%. ( Global Wealth Report 2014 del Credit Swiss). I risparmi degli italiani sono in aumento ( Rapporto Banca d’Italia 2014 ). Eppure in troppi non si riconoscono in queste statistiche. Intanto va detto che ciò che viene misurato con questi dati è l’aumento dei soldi. Soldi che oggi possono essere numeri su un computer. In secondo luogo va aggiunto che l’altra cosa ad aumentare in modo ancor più eclatante è la sperequazione sociale. I soldi aumentano e si concentrano sempre più nelle mani di pochi ( l’1% della popolazione possiede il 43% della ricchezza mondiale ).

Potremmo dire che siamo di fronte ad una crisi dei rapporti di “scambio“, mentre cresce l’esaltazione del “possedere”  come modo di stare al mondo.

Quella di possedere, accumulare, conservare, stipare, sembra una preoccupazione costante di chiunque, da chi ha molto a chi ha poco. Il lavoro diventa il mezzo che consente di accumulare ricchezze per sè e la propria famiglia e smette di essere un terreno di scambio, di produzione e di creazione. Smette di rispondere ad una domanda sociale, rispondendo solo alla propria necessità di accumulare. O se vogliamo alla necessità di “realizzarsi”, che, indicata dal buon senso come finalità naturale e necessaria a cui tendere, sembra in realtà una negazione del valore sociale del lavoro.  Realizzarsi vuol dire far diventare reali le proprie fantasie; non è compreso un discorso sull’Altro da sè, non vi è accenno al prodotto del lavoro come qualcosa che si dona ad altri. La necessità di “realizzar-si” prende il posto del desiderio di “realizzare”, di creare. Accumulare e realizzarsi non prevedono uno scambio col mondo, con le persone, con le cose. Implicano illusione di controllarle, cioè che esistano a proprio uso e consumo. Un illusione certo. Perchè l’unico vero modo di controllare, di possedere è distruggere.

E’ dentro questa cultura che il mercato del lavoro si è deteriorato. Non certo per assenza di risorse, ma per un atteggiamento nei confronti delle risorse.

Vorrei sottolineare che non si parla di qualcosa che riguarda altri, per esempio coloro che governano i mercati finanziari o coloro che dettano le politiche econimiche dei paesi, ma di una cultura che organizza il vivere della gente comune e che incontro spesso nel mio lavoro.

Un pomeriggio si presentò nel mio studio un giovane di 23 anni. Fuori corso, di molto, alla seconda università a cui si era iscritto, dopo aver ritenuto la prima troppo difficile per lui. La sua fidanzata, psicologa in formazione, più grande di lui di alcuni anni, gli aveva consigliato di fare un percorso psicoterapico, preoccupata per l’umore depresso con cui il giovane affrontava la vita. Il ragazzo ( chiamiamolo Andrea ), lamentava una stanchezza di vivere, di avere relazioni, di conoscere, di fare. Per settimane intere non usciva di casa, passando il tempo con i giochi d’azzardo online. Spesso si accaniva con gratta e vinci, schedine, lotto, superenalotto. La sua vita era un continuo tentativo di sbarcare il lunario rimanendosene a casa o tuttalpiù scendendo al bar sotto casa. Eppure per lui non sembrava un problema. Era da me solo perché si sentiva obbligato dalla sua ragazza, la odiava per questo, ma non voleva perderla. Gli chiesi se si sentiva obbligato anche ad andare all’università. O a cercare un lavoro. Mi raccontò di un padre che aveva fatto nella vita ogni genere di lavoro, inginocchiandosi, a detta sua, di fronte ai signori per guadagnare due lire. Un padre sentito come servile. E di una madre che voleva che il figlio riscattasse la famiglia da questo servilismo. Si, questo ragazzo si sentiva obbligato a fare tutto ciò che aveva intrapreso nella sua vita, così come si sentiva obbligato a venire da me. E si sentiva obbligato da un modello: non essere servo. Questo stava trasformandosi in un progressivo ritiro dalle relazioni che assicurava ad Andrea di non “servire” nessuno, in una morbosa fantasia di diventare ricco senza lavorare, per non avere bisogno di lavorare. Diventare potente era il suo desiderio segreto, mentre si riduceva sempre di più ad essere un bambino arrabbiato e impotente.

La situazione di Andrea non è certo straordinaria. Basti pensare che gran parte del sistema economico mondiale oggi si fonda sull’idea, fasulla, che i soldi si fanno con i soldi. E che l’unica utilità dei soldi è quella di fare altri soldi. Il mondo della finanza, i suoi scandali, la sua assenza di regole ne è l’esempio. Ne è una conseguenza il disinvestimento dal lavoro. Così come ne è un corollario ciò che oggi si chiama ludopatia.

Dissi ad Andrea che essere potente o essere servo non erano le due uniche possibilità di stare nelle relazioni. Gli proposi di parlarne con me ancora per qualche seduta. Incontrai Andrea per 5 volte e parlammo a lungo del suo timore di essere derubato dai suoi amici, del suo sentirsi trattato come un bambino dalla sua fidanzata, del suo aver perso un lavoro perché sfidava un capo sentito come un potere insopportabile. Andrea non se la sentì di continuare, di investire in una relazione che era così evidentemente uno scambio, qualcosa che sconfermava che si può essere solo servi o padroni. Spero che quel dubbio che insinuammo insieme abbia fatto, lentamente, il suo corso.

Per approfondimenti:

Carli, R. (2012). L’affascinante illusione del possedere, l’obbligo rituale dello scambiare, la difficile arte del condividere. Rivista di Psicologia Clinica, 1, 285 – 303.